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La politica, le carriere e le elezioni
Non dimentichiamoci di chi vota

URNE - Scatta il conto alla rovescia per le prossime sfide elettorali con rischio reale di inflazionare l’esercizio di un diritto così importante e rendere i cittadini indifferenti rispetto ad una conquista per cui tantissimi uomini e donne hanno sofferto e dato la vita
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di Pietro Frenquellucci 

Mentre viene ufficializzato lo scioglimento delle Camere e fissata al 4 marzo 2018 la data delle prossime elezioni politiche, crescono le voci e le indiscrezioni sul futuro politico del sindaco di Ascoli Guido Castelli. Di giorno in giorno sono apparse sempre più consistenti le ipotesi che lo vorrebbero, nel caso di una vittoria del centrodestra, coinvolto direttamente nel governo del paese quantomeno come sottosegretario o vice ministro. Il perché è scritto nella storia recente del primo cittadino ascolano, risultato tra i sindaci più votati del suo schieramento alle elezioni amministrative del 2014 -bissando il successo del 2009- che vinse al primo turno con il 58,92 % strapazzando il candidato del Pd, Giancarlo Luciani Castiglia, fermo al 16,15%. Castelli è anche delegato per la finanza locale dell’Associazione nazionale dei Comuni (Anci) per cui è stato spesso ospite delle principali trasmissioni tv ricevendone un significativo ritorno di immagine. Una figura importante, quindi, per un centrodestra che punta alla riconquista di Palazzo Chigi. E un’occasione d’oro per il giovane primo cittadino ascolano di fare il grande salto ai massimi livelli del mondo politico nazionale.
Se questo disegno dovesse trovare compimento, cosa potrebbe succedere a livello locale in quella Ascoli che lo ha eletto sindaco con 18.451 voti? Nel caso in cui Castelli dovesse assumere responsabilità ministeriali non potrebbe mantenere la carica di sindaco e, quindi, dovrebbe dimettersi provocando la fine del mandato amministrativo anche del consiglio comunale. Per la città, quindi, si aprirebbe lo scenario di un ritorno al voto in una data sicuramente anticipata rispetto alla scadenza naturale della consiliatura a meno che non si ipotizzi una lunga conduzione commissariale che guidi il Comune fino alla primavera del 2019 quando si sarebbe dovuto tornare comunque al voto. Uno scenario poco probabile considerato che si tratterebbe di un periodo di oltre un anno. E’ del tutto probabile, quindi, che si andrebbe al voto anticipato. Ora, se l’eventuale scelta di Castelli di lasciare il Comune per Roma è del tutto legittima dal punto di vista della legge e più che comprensibile da quello umano, è altrettanto evidente che la vicenda elettorale ascolana si andrebbe a sommare alle tante, tantissime, che negli ultimi anni hanno costellato la vita politica della nazione.

Il sindaco di Ascoli Guido Castelli

Negli ultimi cinque anni i cittadini italiani sono stati chiamati alle urne ben 22 volte. Dal 2012, infatti, si è votato per due referendum, una volta per le europee, una per il parlamento nazionale, cinque per le regionali e 13 per le comunali. A questi numeri, poi, vanno aggiunte le varie primarie (nazionali, regionali e comunali) per la scelta dei candidati, i ballottaggi, e le recenti regionali in Lombardia e Veneto per aprire un confronto con lo Stato destinato ad ottenere il riconoscimento di nuovi e più ampi spazi di autonomia. E se è vero che non si è trattato sempre di consultazioni elettorali che hanno interessato tutto il paese, è altrettanto vero che il fiume di denaro speso per garantire l’esercizio del diritto di voto è stato davvero spaventoso. Tre esempi su tutti: si va dai 170-200 milioni di euro per il referendum costituzionale del dicembre 2016 ai 300 milioni di quello di aprile sempre 2016, ai circa 390 milioni per la tornata elettorale del 2013.
“Il diritto di voto è la massima espressione dell’esercizio della sovranità” si legge nel manuale di diritto costituzionale italiano ed europeo (di Saulle Panizza, Pertici, Dal Canto, Rossi, Malfatti): la validità e l’importanza di questo concetto nessuno, che abbia a cuore la democrazia, potrebbe pensare di mettere in discussione. Ma di fronte ai numeri sopra indicati è altrettanto chiaro che qualcosa non funziona e il rischio reale è quello di inflazionare l’esercizio di un diritto così importante e rendere i cittadini indifferenti rispetto ad una conquista per cui tantissimi uomini e donne hanno sofferto e dato la vita. Un allarme ingiustificato e privo di fondamento? Non proprio se si analizzano le percentuali di affluenza al voto in calo continuo anno dopo anno, soprattutto in occasione dei ballottaggi quando alle urne si è recato un numero di elettori al di sotto della soglia del 50 per cento. Anche in questo caso sono i numeri a parlare. Alle comunali del 2016 al primo turno aveva votato il 62,14% degli aventi diritto scesi al 50,54% al ballottaggio; nel 2017, queste percentuali erano passate al primo turno al 60,07% e al ballottaggio al 46,03%.

La Politica – quella con la P maiuscola – deve affrontare realisticamente questa questione pensando meno agli interessi di bottega e più ai valori. Certo lo spettacolo a cui abbiamo assistito in occasione del varo della nuova legge elettorale – quella per capirci che con ogni probabilità ci consegnerà un parlamento non in condizione di varare un Governo – non è certo confortante. Tuttavia stavolta in ballo non ci sono le poltrone di un consiglio comunale o quelle del parlamento, ma qualcosa di ben più importante: il valore della democrazia e la condivisione dei suoi pilastri fondanti tra cui proprio il diritto di voto. Sperare in una soluzione seria è un’utopia? Forse, ma non dovrebbe essere così.

 


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