di Luca Capponi
(foto di Cecilia De Dominicis)
L’arte del sogno. L’arte della meraviglia. Su un palco, come nella vita. Scorrono note, parole, immagini, ed è già passato. Da sognare di nuovo. Cinesophia 2018 va in archivio con il suo bagaglio di fantasia e stupore. Resteranno negli occhi le immagini di due giorni vissuti intensamente tra dibattiti e spettacoli, con l’atto finale di sabato sera a proiettare il pubblico nello stato di passaggio tra veglia e mondo onirico: “Il sogno – L’esistenza lucidamente onirica da Armarcord a Inception”. Con questo ambizioso titolo il philoshow conclusivo ha regalato nuovamente la magica commistione tra musica, teatro, cinema e televisione resa possibile dall’incontro tra il direttore artistico Lucrezia Ercoli, traghettatrice insieme al filosofo Umberto Curi (uno che, tra l’altro, è editorialista del “Corriere della Sera”), e la voce recitante di Pamela Olivieri, che con impeto ha anticipato le esibizioni dell’ensemble Factory, interpretando i versi di brani come “Dreams” (un omaggio sentito a Dolores O’Riordan), “Over the rainbow” e “Reality”. Un Factory particolarmente in forma nelle esecuzioni di “Non, je ne regrette rien” di Edith Piaf e “Everybody’s got to learn sometime” dei Korgis.
Sullo schermo, sequenze tratte da “Io ti salverò”, “Il mago di Oz”, “8½”, “Se mi lasci ti cancello”, “Truman Show” e persino da “Destino”, il corto animato nato dall’incontro tra Salvador Dalì e Walt Disney.
Interessante la disamina di Curi, abile a illustrare la due correnti di pensiero sui sogni; da una parte Freud e Omero, con l’interpretazione come base fondante, dall’altra Fellini e Adorno a parlare di intraducibilità, fino alla “porta socchiusa” davanti all’universo della memoria davanti cui dovremmo sostare come nella copertina de “La metamofosi” di Kafka.
«Le spiegazioni sono noiose, sono terribili, prima le avventure», ha ricordato la Ercoli sul finale, citando Lewis Carroll e la sua Alice nel paese delle meraviglie, a sancire una fine del viaggio che è ritorno, ripartenza, come la trottola che gira alla fine di “Inception”. E che non sai se cadrà o meno.
Di sicuro c’è che la trottola di “Cinesophia, estetica e filosofia del cinema”, ha girato bene. L’organizzazione sinergica tra Comune di Ascoli e associazione culturale Popsophia, in collaborazione con l’Ufficio Provinciale Scolastico, ha portato sia venerdì 23 che sabato 24 febbraio studenti, docenti e tanti appassionati a gremire il teatro Ventido Basso di Ascoli. Un festival quest’anno basato sul tema del realismo magico, che ha approfondito le tematiche di due grandi maestri della settima arte come Ingmar Bergman e Federico Fellini.
Proprio il maestro di Rimini è stato protagonista del pomeriggio di sabato 24, con una serie di interventi intensi ed altamente formativi. Prima Roberto Mordacci, preside della Facoltà di Filosofia dell’Università vita-Salute San Raffaele, che con sagacia ha fornito la sua chiave di lettura all’autobiografia magica del Maestro, quell’8½ in cui scrisse di sé, dei suoi retaggi, della crisi umana, esistenziale e artistica senza concedersi sconti, con l’autenticità dei grandi che poi è quella dell’uomo comune alle prese con aspettative, fallimenti, bellezza, trasgressione, gabbie. A seguire, Andrea Minuz, insegnante di storia del cinema presso “La Sapienza” di Roma, con l’ausilio di semplici immagini ha parlato di realismo magico dal punto di vista dell’autore de “La strada”: prospettive deformanti che vengono dall’età infantile (il Rex di “Amarcord”), gli elementi naturali come trampolino verso l’inconscio, l’irreale (la nebbia in “Amarcord”, il vento e la pioggia di “I vitelloni”), gli spunti di cronaca che ne hanno sancito la specularità felliniana: «Molte immagini oggi riconosciute come tali, presero spunto da fatti dei rotocalchi che colpirono il regista, dalla Ekberg nella Fontana di Trevi fino all’elicottero che trasportava la statua di San Giuseppe, divenuta poi quella di Gesù ne “La dolce vita”», ha detto Minuz, citando anche “Roma” (uno dei film che più ha influenzato Sorrentino e il suo “The Young Pope”), “Prova d’orchestra” e lo sguardo in macchina dei personaggi divenuto sua cifra stilistica.
Chiusura con Marcello Veneziani, che agganciandosi all’immagine finale fornita da Minuz con Fellini in compagnia dei “suoi” sceneggiatori Tullio Pinelli ed Ennio Flaiano, si è soffermato sul rapporto con quest’ultimo ai tempi de “La dolce vita”. «Un film nato sui tavolini dei caffè romani, nel continuo “cazzeggio” tra Fellini e Flaiano e il loro disincanto, nello sguardo dei due provinciali arrivati nella Capitale». Veneziani ha anche ricordato, divertendo il pubblico, numerosi aneddoti, tra cui la nascita dell’invadente “Paparazzo” (il cognome era di un ristoratore calabrese), le battute, lo spirito di due “animacce” di cui oggi si sente una gran mancanza.
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