di Andrea Braconi
Alle 3.32 del 6 aprile L’Aquila ha ricordato i 10 anni da un terremoto che si portò dietro 309 vittime e una distruzione impressionante. E in queste ore di bilanci, tutti i media nazionali ed internazionali sono d’accordo sullo stato di una ricostruzione “a metà”.
Un tema, questo, che tocca tutti da vicino, se si considerano gli effetti devastanti delle scosse registrate nel centro Italia tra l’agosto 2016 e il gennaio 2017, per numero di morti e danneggiamenti di edifici pubblici e privati, nonché di importanti infrastrutture.
Si dice preoccupato Alessandro De Grazia, segretario provinciale della Cgil di Fermo. «Se prendiamo L’Aquila come esempio e se la stessa logica, gli stessi tempi si dovessero ripresentare qui da noi, diventerebbe un disastro -commenta-. Qui le dimensioni sono molto più grandi e più estese. Se a L’Aquila nel centro storico ci sono stati interventi per circa il 50% dopo 10 anni, chiaramente anche qui da noi è automatico pensare che vivremo la stessa situazione».
Quello nel centro Italia sarà il più grande cantiere nazionale, se non addirittura europeo, si è sottolineato sin dai giorni successivi ad una tragedia che ha spazzato via città come Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto, che (per restare nelle sole Marche) ha ferito in maniera profonda Visso, Castelsantangelo sul Nera, Ussita e Pieve Torina, che ha lesionato gravemente l’ospedale di Amandola, il Santuario della Madonna dell’Ambro, un numero impressionante di abitazioni private nell’area montana e che ha generato ripercussioni in tanti edifici pubblici di città vicine alla costa come Monte Urano e Fermo. Un’area vastissima, quindi, sulla quale ricadranno risorse economiche enormi. «Scontiamo, però, ancora dei ritardi impressionanti -aggiunge De Grazia -. Fra pochi mesi saranno tre anni e ancora abbiamo una situazione, sia per quanto riguarda le pratiche evase, sia per la rimozione delle macerie lontana anni luce dal far ripartire un settore strategico come quello dell’edilizia, che andrebbe a muovere tutta l’economia. E che, come risvolto particolare per le aree interne, andrebbe a fermare l’emorragia demografica che già c’è stata negli anni precedenti al terremoto. Il rischio spopolamento nell’entroterra fa veramente paura e va fermato».
L’Aquila come paradigma, quindi. Un modello da destrutturare in diversi punti e sul quale ragionare per non ripetere errori che, in Comuni di dimensioni decisamente inferiori e con servizi già compromessi, potrebbero portare ad uno svuotamento irreversibile.
Ma L’Aquila, soprattutto in queste ore, è anche memoria. Di chi lì viveva, studiava o lavorava. E di chi, dopo le scosse di quella notte, è stato coinvolto nella macchina dei soccorsi. Tra questi Francesco Lusek, all’epoca coordinatore della prima squadra di volontari intervenuta dalle Marche con strumentazioni tecnologiche specifiche. «Sono andato a L’Aquila in forma privata insieme ad altri colleghi marchigiani e di altre regioni – racconta -. Visitare dopo tanto tempo i luoghi dove hai prestato soccorso e rivedere le persone genera inevitabilmente un mix di sensazioni contrastanti. L’impressione, confermata anche da alcuni amici abruzzesi, è che la fase di ricostruzione abbia bisogno di una forte accelerazione. Concordo con l’analisi di Guido Bertolaso apparsa in questi giorni su varie testate giornalistiche. Il sistema di Protezione civile ha risposto alla fase di emergenza in maniera rapida e massiccia. Il sisma Abruzzo rappresenta ancora l’operazione di soccorso più imponente attuata sul territorio nazionale. Serve uno scatto culturale per affrontare gli interventi per un ritorno alla normalità, una normativa speciale che agevoli la ricomposizione delle comunità locali nel più breve tempo possibile. Questo ovviamente vale per ogni emergenza che si possa verificare sul territorio nazionale, è impensabile creare un nuovo impianto normativo a seguito di ogni evento».
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