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Tiziano Fratus all’Ama Festival
Il “cercatore di alberi” ospitato
nelle librerie di tutto il mondo

L'AUTORE di numerosi libri di poesia, narrativa e saggistica tradotti in tutto il mondo, ma anche di mostre fotografiche, itinerari e laboratori. Ha curato per sei anni la rubrica “Il cercatore di alberi” per “La Stampa” e attualmente scrive per “Il Manifesto”. È il protagonista del documentario “Homo Radix”
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di Giorgio Tabani

«C’è una grammatica che attende soltanto di essere parlata, una lingua che abbiamo dimenticato allontanandoci dal cuore selvatico della nostra immaginazione. [… Occorre] fare ritorno alla radice dell’esistenza, a quel posarsi d’una foglia al suolo, al levarsi del sole, ogni mattina, da dietro le montagne. Siamo parte di questo istinto al movimento, […] un dono immenso». Sono le parole di uno dei libri di Tiziano Fratus, “Il bosco è un mondo”.

Tiziano Fratus

Scrittore e poeta, bergamasco classe 1975, vive nella pianura piemontese. È autore di numerosi libri di poesia, narrativa e saggistica tradotti in tutto il mondo ma anche di mostre fotografiche, itinerari e laboratori. Ha curato per sei anni la rubrica “Il cercatore di alberi” per “La Stampa” e attualmente scrive sulle pagine de “Il Manifesto”. È il protagonista del documentario “Homo Radix” di Manuele Cecconello. Né botanico né ecologista militante, Fratus è un intellettuale che ha voluto valorizzare il rapporto intimo con la natura, in modo autentico e profondo.

Ad ospitarlo l’Ama Festival “Facciamo che io ero un albero”, il festival delle arti parlate, musicate e rappresentate che si è svolto il 6 e 7 luglio presso la Comunità terapeutica “Casa Ama”, organizzato dalla Cooperativa Sociale Ama Aquilone con il patrocinio del Consiglio Regionale delle Marche e la collaborazione dell’associazione culturale “I Luoghi della Scrittura” e della galleria “Gliacrobati”.

Com’è stata la sua esperienza all’Ama Festival?

«Sono sempre molto grato tutte le volte che qualcuno si offre di ospitare il mio piccolo percorso editoriale e umano. Per quello che ho potuto vedere, e sono rimasto ben volentieri per partecipare ai successivi eventi, ho notato una comunità – quale è quella di Ama Aquilone –  coesa, molto interessante e piena di persone che si spendono per il bene di coloro che hanno delle difficoltà. Sono davvero felice di essere qui e per quanto riguarda il mio intervento, hanno partecipato un centinaio di persone che hanno ascoltato, sono intervenute, c’erano anche molti ragazzi e ragazze pronti a dire la loro».

Sei l’autore di una costellazione editoriale che abbraccia poesia, narrativa, saggistica e fotografia. Da cosa sei partito?

«Tutte queste parole le percepisco come eccessive e faccio sempre un po’ fatica ad addossarmele. Il mio percorso nasce da un interesse per il teatro: per anni mi sono occupato di teatro e nuova drammaturgia. Andare a vedere gli spettacoli, conoscere e osservare come lavoravano le compagnie indipendenti, in quello che era il “teatro di ricerca”. Gli anni ’90 e i primi 2000 sono stati anni di grande fermento, di cambiamenti, pieni di tante iniziative e hanno visto l’incontro di due generazioni: quella formatasi negli anni ’60-’70 e i giovani miei coetanei. Per me è stato un periodo molto bello, un momento di crescita e conoscenza perché il teatro è una di quelle forme che traduce, vede e filtra quello che sta accadendo nella società. Al contrario dell’università in cui eri lì seduto passivamente, a imparare a memoria, di fronte a gente che voleva venderti libri. Quel teatro mi appariva allora come un universo di scelte più radicali, dove giravano pochi soldi ma si sudava parecchio. Poi mi sono avvicinato alla poesia, che è stata la mia prima forma di scrittura attraverso cui ho cercato di creare qualcosa che potesse raggiungere la voglia, l’interesse e il piacere di altre persone. La poesia rimane la mia radice prima, il mio modo di concepire la  parola, di cercare di definire il mondo attraverso la forma espressiva».

Ti sei definito “homo radix”, che cosa intendi? E da dove viene questo interesse per gli alberi?

«Mio padre era un falegname e quindi avevo sempre il naso ficcato in mezzo al legno. Ci sono stati poi degli episodi, in particolare un viaggio in California molti anni fa avvenuto in un momento di difficoltà della mia vita. Quando incontrai le prime sequoie millenarie fu un’esperienza così particolare, forte e intensa che nacque proprio una poesia che era proprio la definizione in versi dell’uomo radice. Avendo poi un cognome che suona alla latina, ho adottato questa dizione di “homo radix”. Si tratta di un individuo che attraversa il paesaggio e cerca di creare connessioni a carattere estetico, spirituale, culturale ed emotivo con elementi della natura per costruire una nuova identità. Nel mio caso questo tipo di emotività, interesse e studio si è plasmato soprattutto attorno alla presenza di alberi monumentali e boschi vetusti».

Addentrandosi nella tua opera capita di incontrare i termini “dendrosofia” e “alberografia”.

«Sono tutti termini che fanno parte di questo mio vocabolario creatosi nel tempo e fatto di neologismi e/o parole antiche rese nuovamente attuali. L’alberografia è in sostanza l’attraversamento di un territorio col compito di mappare e documentare gli alberi presenti. La dendrosofia è un’evoluzione dell’alberografia dal punto di vista filosofico e spirituale, ha a che fare con la conoscenza dei luoghi, la storia delle persone e la meditazione: meditare in questi luoghi permette di maturare una consapevolezza, una profondità di pensiero, di visione e di esperienza che il solo attraversamento non garantisce di per sé».

Quali sono stati e sono i tuoi riferimenti nel panorama culturale?

«I miei riferimenti sono tantissimi e sono cambiati nel tempo, con l’esperienza. Da ragazzo c’erano poeti, registi cinematografici e altri scrittori. In particolare, vorrei citare l’italo-americano John Giorno, tra i più noti poeti dell’area sperimentale. E poi c’è la neoavanguardia di Elio Pagliarani e Antonio Porta del cosiddetto “Gruppo 63”. Mi viene in mente il poeta e critico Giovanni Raboni. Cito tutti poeti che mi è stato possibile conoscere, con i quali mi è stato possibile scambiare, da ragazzo. C’è poi il famoso scrittore francese, Jean Giono che ha scritto molto di natura, antesignano dei nostri Mauro Corona e degli altri contemporanei che parlano di questi temi. Per quanto riguarda la filosofia c’è molto pensiero orientale, in particolare maestri del buddismo. Un filosofo come Alan Watts, che è stato un grande divulgatore delle filosofie orientali in nord America. Non sto poi a nominare gli Henry David Thoreau, i Ralph Waldo Emerson, i Walt Whitman: tutte figure del cosiddetto “Rinascimento americano” che hanno abbracciato la scrittura, l’umanità, la letteratura e la natura».

Cosa significa per te scrittura ambientale?

«I termini “scrittura ambientale” o anche “letteratura vegetale” sono molto generici e si usano per indicare la scrittura che ha per tema o anche soltanto per ambientazione luoghi naturali, che tratta storie che hanno a che vedere con personaggi in cerca di un rapporto particolare, intimo e profondo con la natura. Anche se non esiste una vera e propria letteratura ambientale, ci si possono mettere dentro tante cose: in Italia da Dino Buzzati a Elio Vittorini fino al barone rampante di Italo Calvino».

Qual è la situazione dei boschi italiani e degli alberi in situazioni urbane?

«Tutto è molto in trasformazione. La risposta che si poteva dare 20 anni fa è diversa da quella di oggi. Col cambiamento climatico quello che conosciamo oggi non ci sarà più. Si può immaginare che il panorama forestale italiano nei prossimi cento anni cambierà molto sia per l’innalzamento della temperatura sia per la presenza di nuovi insetti, infestanti e malattie. Per quanto riguarda invece la presenza degli alberi in città, per fortuna, pare sia molto cambiata dopo i maltrattamenti che ha troppo spesso avuto: oggi si sa che una città in salute è molto alberata, per mille motivi. Da fattori estetici a motivi legati alla salute fino al benessere derivante da temperature più controllate in estate».

I giovani oggi paiono sempre più interessati da tematiche ambientali, Lei come la vede? E che significa “bambino radice”?

«Quando ho parlato, per un laboratorio, di “bambino radice” si ipotizzava una “famiglia radice” in cui tutti i componenti manifestano interesse e piacere per la natura (dall’occuparsi di un orto all’avere animali ecc.). Oggi tutti questi ragazzi che si occupano del futuro del pianeta incarnano la speranza di vedere finalmente uno sguardo sulle questioni ambientali che sia non solo settoriale e limitato, ma si apra a una consapevolezza  più eminentemente politica. Vedremo a cosa porterà, di risultati concreti finora ce ne sono stati pochi. La mia speranza è che questo movimento riesca a trasformare le scelte individuali e collettive in modo utile per il pianeta. Certo è che i giovani, e ne ho incontrati molti nelle scuole nell’ultimo periodo, sono poco consapevoli – come è normale – dei cambiamenti subiti dalla società negli ultimi 50 anni. Mio padre, nato nel 1950 in provincia di Bergamo, a 12 anni andava a scuola e di pomeriggio lavorava in falegnameria. Io alla stessa età andavo in un campus a Londra per studiare la lingua. Sono due stili di vita distanti e diversi. Una parte del mondo è cambiata grazie all’impegno della generazione dei nostri padri, nonni e zii che vivevano nella povertà. Tutto questo è importante, in una visione generale, per capire cosa le persone possono fare per moderare il loro impatto sul clima».

Quali sono i suoi prossimi progetti?

«A fine autunno – prosecuzione de “Il sole che nessuno vede” – uscirà “Interrestràre”, una raccolta di testi in versi e in prosa che è dedicata alla meditazione. Da pochissimo, invece, è uscito il libro che abbiamo presentato all’Ama Festival, “Giona delle sequoie”, dopo ben 10 anni di gestazione. È stato un lavoro lungo e faticoso. Tanti editori l’hanno vagliato, e anche apprezzato, dicendomi però: «Sai un testo sull’America, la California… Il lettore italiano vuole leggere di cose italiane!».  Questo mi ha permesso peraltro di avere un dialogo aperto con tanti editori, con cui poi ho pubblicato altro, e anche di perfezionare continuamente l’opera. Questo mio lavoro rappresenta veramente la prima idea che ho avuto quando sono passato fra quegli alberi, ma curiosamente è arrivato per ultimo. Mi piace pensarlo come il libro che in qualche modo chiudo il cerchio».

Arrivati a questo punto sorge la domanda, cos’è per te la natura?

«La natura è una grande scommessa e anche una grande incognita. Durante l’incontro un ragazzo mi ha chiesto la stessa cosa e io ho risposto con una provocazione del filosofo James Hillman. Noi siamo abituati a pensare alla natura come natura selvatica (le foreste antiche, gli animali selvatici, ecc.) mentre se pensiamo a qualcosa di artificiale pensiamo a tutto quanto c’è di umano (le nostre città, le nostre tecnologie, tutto ciò che l’uomo fabbrica). Ma se l’uomo è natura, e lo è, allora anche quello che fa è natura. Questa secondo me è una provocazione interessante su cui riflettere».

Oggi si diffonde sempre di più il veganismo o, nella sua versione filosofica, l’antispecismo. Che ne pensa?

«Sono un amico di Leonardo Caffo, che ha studiato a lungo questi temi. Penso siano riflessioni interessanti e utili. L’idea di porsi la domanda sui confini della propria azione e su quanto l’essere umano possa decidere per le altre specie del pianeta è fondamentale e decisiva per il nostro futuro. E poi è commovente il fatto che si occupino di animali non solo i santi ma anche le persone di diritto, d’intelletto e in prospettiva un po’ tutti: si tratta di un moto di evoluzione e miglioramento in fatto di sensibilità».

C’è un albero che le viene in mente ora, di cui potrebbe raccontarci la storia?

«Nel mio ultimo libro parlo di un albero, che è considerato l’albero più grande del mondo. Si tratta di una sequoia di 2.000/2.500 anni di età, nota come “generale Sherman” in onore di William Tecumseh Sherman, valoroso generale dell’Union Army della Guerra di secessione americana. Un albero maestoso, di dimensioni strabordanti e che produce un autentico senso di piccolezza in chi lo guarda. Il suo primo nome è stato “Karl Marx”, una cosa curiosa se si pensa che siamo negli Usa. In realtà la zona infatti apparteneva alla Comune di Kaweah, un esperimento cooperativo di stampo socialista, organizzato da attivisti provenienti da San Francisco: una sfida alla dominazione del Capitale. Tutto questo finché un atto legislativo del 1890, che creò l’attuale parco nazionale che comprende la Giant Forest di sequoie, fu emendato all’ultimo minuto per espropriarne i terreni. Peraltro la stessa strada che oggi si percorre nel parco la costruirono loro, a loro spese, eppure furono fatti allontanare a forza dall’esercito».


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