Il Jamboree o meglio World Scout Jamboree, è un raduno mondiale di scout che si svolge ogni quattro anni in un continente diverso. Antonella è una ragazza di 15 anni che fa parte del Gruppo Agesci Ascoli Piceno 2 con sede presso la parrocchia del Cuore Immacolato di Maria. Dopo un anno di preparazione con altri 20 esploratori e guide della Regione Marche è volata in America. Si è svolto infatti dal 22 luglio al 2 agosto nel West Virginia, in una riserva naturale: The Summit Bechtel Reserve. Erano in 45.000 tra giovani e adulti provenienti da oltre 130 paesi. Di ritorno da questa avventura Antonella ha sentito il bisogno di mettere nero su bianco la sua esperienza:
«Il tema del ventiquattresimo “jamboree” (letteralmente “marmellata di ragazzi”) era “i ponti”. “Quasi banale” ripeteva una vocina dentro di me quando ne sentivo parlare in Italia dai capi, ai campetti organizzati
per noi. Non immaginavo che per me sarebbe diventato ben più del significato di una parola. La prima volta che mi sono seduta in arena, circondata da mille volti, colori, religioni e culture differenti dalle mie, ho visto migliaia di ragazzi tutti pronti a sorridere e a cantare in coro, senza preoccupazioni o differenze, accomunati solo dalla gioia di essere insieme. Ed ecco che noi, 50.000 cuori palpitanti, stavamo creando un ponte, abbattendo il muro dei pregiudizi per costruire quello della fratellanza. A nessuno importava da dove venisse il compagno vicino che stava abbracciando. è bastato un istante perché anche il muro della mia preoccupazione, timidezza e insicurezza fosse
abbattuto.
La prima mattina arrivata al campo ero emozionata, un miscuglio di felicità, esaltazione e preoccupazione. Non sapevo se sarei stata all’altezza e il parlare con altri mi impensieriva particolarmente (soprattutto quando i capi ci hanno dato la sfida di conoscere quante più persone possibili) perché non sapevo cosa aspettarmi. Tornando indietro mi rendo conto che non ne avevo motivo perché già dal primo giorno si era creata quell’atmosfera di apertura, curiosità e accoglienza per le differenze e le somiglianze tra le culture.
Come ambasciatore è mio dovere ma anche un immenso piacere raccontare quello che ho vissuto, visto e provato. Quest’inverno credevo sarebbe stato facile raccontare un’avventura fantastica come questa; “le parole non mi mancheranno sicuramente per esprimerla” dicevo tra me e me, mi sbagliavo. L’ho capito quando, tornata in Italia,
mi hanno chiesto di descriverla. Il jamboree è stata un esperienza mozzafiato, più intensa e sensazionale di quanto avrei mai potuto immaginare. Le parole non possono bastare. Mentre scrivo ascolto le canzoni che mi hanno accompagnato in queste due settimane indimenticabili e rivedo chiari nella mia mente quei momenti: le dieci ore di aereo per arrivare a Charlotte, le sei ore di pullman per arrivare al campo, le nostre tende montate sotto la pioggia alle due di mattina. Ricordo bene il tragitto per andare a fare la spesa, la mattina dopo il nostro arrivo, la nostra sorpresa e lo sconforto nel vedere quegli ingredienti così diversi dai nostri. Se devo dirla tutta l’unica cosa che non mi mancherà è proprio il cibo, mentre all’intero sottocampo probabilmente mancherà la nostra pasta!
Le note ormai familiari proseguono e in un attimo sono di nuovo al “cultural day”, un’intera giornata dedicata allo scambio culturale tra le nazioni. Abbiamo cucinato i piatti tipici, organizzato giochi e attività per i nostri ospiti. Sono rimasta al nostro stand per quasi tutta la mattina a fare amicizia con chiunque si fermasse a parlare. Ho imparato che non siamo poi così diversi noi ragazzi, avevamo tutti quell’espressione di scoperta sul volto: sia che fossero a quel tavolo per mangiare quella pasta al sugo mezza scotta (che per loro era buonissima) sia quando scoprivano che
il gioco che gli insegnavamo era solo la versione italiana di quello che già conoscevano.
Anche chi andava di fretta si fermava per scambiare le sue usanze con le nostre e molti tornavano più volte soltanto per fare un saluto. Con molti ho chiacchierato a lungo e le domande non sembravano mai finire: centinaia gli argomenti che venivano in mente, probabilmente se altri eventi non ci avessero fermato avremmo parlato per ore, tanto eravamo presi dalla curiosità di capire l’altro, le sue esperienze, la sua quotidianità. In Italia non avrei mai pensato di poter fare così facilmente amicizia con qualcuno, bastava quel “hi!” lungo la strada che tutti si fermavano sorridendo.
Già dal secondo giorno avevo perso il conto delle foto che avevo fatto con quelli che avevo conosciuto. Il campo era
enorme e durante il cammino ogni volta che si passava di fianco ad un gruppo che cantava una canzone conosciuta la si intonava insieme. La più gettonata era Country Roads di John Denver; quando cominciavi a cantarla eri certo che tutti avrebbero cantato con te, foss’anche dall’altra parte del campo. Ogni sera quando tornavamo dall’arena alle tende ripetevamo quel ritornello anche cento volte senza stancarci mai.
Ora in Italia ascolto con nostalgia i versi “country roads take me home to place i belong…” (“strade di campagna portatemi a casa verso il luogo al quale appartengo”), consapevole che il luogo al quale appartengo non è più un angolo di mondo dove sentirmi sicura, ma tutte le strade di questa bella terra dove incontrare i miei fratelli scout. Quando mi sono imbarcata sul primo volo durante il decollo, ho pensato “chissà se in qualche modo tutto questo mi cambierà!”. Ebbene oggi non ho dubbi, la “marmellata” mi ha cambiata profondamente e ne sono felice».
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