Domani, venerdì 26 giugno è la Giornata Internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droghe. Una data importante per la onlus Dianova che, da oltre trent’anni, in Italia, si occupa del problema della dipendenza da sostanze, droga e alcol, con l’obiettivo di aiutare tanti ragazzi con alle spalle storie di sofferenza e disagio a ritrovare il loro spazio nella nostra società.
Dianova ha una comunità anche nel nostro territorio.
Aperta nel 1989, si trova a Montefiore, zona Val Menocchia.
È una struttura residenziale in grado di ospitare fino a 23 persone in difficoltà offrendo loro due distinti percorsi di inserimento.
Nonostante molto problemi generati dall’emergenza Coronavirus, l’associazione ha continuato ad essere in prima fila nel sostegno alle persone finite nel vortice della dipendenza.
E proprio in occasione del 26 giugno, la onlus vuole rendere un caloroso omaggio al duro lavoro, alla dedizione e all’approccio innovativo dimostrato dagli operatori delle dipendenze in questi tempi di incertezza.
«Il nostro obiettivo in occasione di questa giornata – affermano i responsabili della Dianova – è quello di far riconoscere i servizi per le dipendenze a pari livello dei servizi sanitari essenziali e per ricevere la stessa assistenza e lo stesso supporto, in quanto i disturbi correlati all’uso di sostanze sono una questione di salute pubblica.
Se si presenterà un’altra crisi di questa portata, i servizi per le dipendenze non dovranno essere considerati il parente povero del sistema sanitario pubblico».
L’organizzazione non lucrativa di utilità sociale ci fornisce anche un’interessante testimonianza di un proprio operatore, impegnato a confrontarsi con una quotidianità stravolta dal Covid 19.
«Lavoro in comunità da oltre 20 anni e credo che in questo periodo, come non mai, i servizi residenziali per le dipendenze abbiamo saputo dimostrare con quanta professionalità e competenza portano avanti il proprio operato.
Siamo stati in grado di disciplinare l’emergenza sanitaria e di reperire ciò di cui avevamo bisogno da soli, continuando a tutelare una costola dolorante della società che pochi curano.
Dopo la prima fase di sorpresa e smarrimento, abbiamo iniziato a rimodulare e riorganizzare ogni aspetto della vita comunitaria.
Ci siamo messi le mascherine, abbiamo mantenuto le distanze, abbiamo parlato con tutti gli utenti e abbiamo spiegato loro la situazione complessa che si era venuta a creare.
Non è stato semplice far capire loro ciò che stava accadendo, stimolarli ad essere pazienti e a sapersi gestire emotivamente.
Oltre a questo, noi operatori abbiamo vissuto l’incertezza del momento, il non sapere cosa sarebbe potuto accadere nelle settimane a seguire.
Anche noi abbiamo avuto le nostre paure – è sempre l’operatore che parla – con le nostre famiglie a casa, con i nostri figli soli davanti ad un pc e con le preoccupazioni legate anche alla salute per noi e per i nostri familiari.
Il lavoro ci è cambiato.
La relazione umana è anche relazione fisica.
Lavorare in una comunità significa accompagnare le persone verso la consapevolezza delle proprie fragilità. E sostenerle nel difficile percorso di trasformarle in un punto di forza.
Il nostro ambiente è un luogo in cui ti rendi conto che ogni singola parola o gesto hanno un valore.
Non puoi permetterti di sottovalutarli.
Noi tocchiamo con mani, 24 ore su 24, ogni aspetto della vita dei ragazzi che vivono qui».
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati