Sara Rocchi, ascolana doc, 28 anni, è un mezzo soprano di grande talento che ci ha raccontato di come il dono che la vita le ha fatto, con una voce così, debba essere restituito ogni giorno…in fondo questa è l’essenza dell’essere artisti.
Come ti sei avvicinata a questo mondo?
«In ospedale! (ride) Nel senso che soffrivo di tantissima ansia a livelli patologici finché una dottoressa, che ringrazierò a vita, mi consigliò di provare con qualcosa di artistico. Si aprirono diverse opzioni tipo la danza ma un giorno, mentre ero in macchina e avevo 13 anni, dissi che avrei voluto provare con il canto lirico. Ho sempre vissuto in un contesto di appassionati di musica ma mai avrebbero pensato ad una scelta del genere.
Siamo andati allo Spontini e ho incontrato la mia prima insegnante e devo dire che lei ci ha creduto più di me: mi disse che ero musicale, aveva visto del potenziale e, dopo 4 anni, tra il quarto e il quinto superiore, decisi di provare ad entrare in conservatorio.
Lei insegnava a Pesaro e avremmo potuto continuare insieme il percorso: così sono iniziate le mie traversate Ascoli – Pesaro, ma ancora non avevo capito che questa fosse la mia strada, tanto che mi sono iscritta anche a filosofia ad Urbino».
Quando c’è stata la chiave di volta?
«Nel 2014, quando ho debuttato nella mia prima opera, “Zanetto” di Mascagni. Ero già laureata e mi stavo diplomando al conservatorio, quindi forse dovevo già capire qualcosa.
L’opera era complessa, 45 minuti con due personaggi e inoltre ero un maschio, con un’atmosfera un po’ fuori dai soliti contesti. Lì mi sono resa conto che ero felice, mi piaceva e, soprattutto, stavo bene.
Era appena morto mio nonno che mi accompagnava a Pesaro nelle traversate e ho razionalizzato che c’era tanto da dare, donare e restituire. Questo lavoro in fondo è un po’ una missione».
Con quale opera senti una speciale connessione?
«Prima del lockdown ho avuto la fortuna di portare in scena “L’italiana in Algeri” di Rossini, un’opera buffa la cui protagonista mi ha stupito!».
Come mai?
«Non pensavo di trovare tanta serietà in un’opera del genere. Il mio personaggio era sempre in scena, cantava sempre, mi sono riconosciuta anche fisicamente e poi, non mi era mai capitato di cantare qualcosa di “super super” serio».
La preparazione di un cantante lirico deve comprendere anche la recitazione, come e quanto è curato questo aspetto?
«La recitazione e il contorno alla voce l’ho realizzati più tardi: avevo una predisposizione importante ma l’ho capito dopo. La consapevolezza del palco, la relazione con l’altro sono stati elementi innati e questo mi ha avvantaggiato.
Ho affinato tantissimo la mia preparazione al teatro dell’Opera di Roma lavorando con registi, attori, scenografi, light designer e tutta l’enorme macchina che si muove intorno alla costruzione di uno spettacolo.
Ho anche partecipato a corsi di formazione e master».
E in conservatorio? Si cura questo aspetto?
«Ci sono potenziamenti ultimamente ma siamo un po’ indietro rispetto ad altri modelli. Per farti capire: sono stata in Russia, la mia esperienza artistica più forte, e ho vissuto un ambiente completamente diverso…loro crescono a pane e Stanislavskij!
Noi ci arriveremo, ma la strada è ancora molto lunga».
Il teatro che ti ha toccato il cuore?
«Senza dubbio il Teatro dell’Opera di Roma: sono stata lì per due anni e mezzo dentro il programma per giovani cantati lirici. Eravamo in 8 e vivevamo in osmosi, oltre a respirare il teatro a 360 gradi. Così sei amico del portiere, della parrucchiera, è una casa, un luogo in cui mi sento bene, protetta, e percepisco una vera connessione (a luglio sarò di nuovo in scena lì)».
E il rapporto col Ventidio?
«(sorride) Quando faccio le audizioni dico sempre sono di Ascoli Piceno, sono molto “patriottica” e ci tengo tanto a marcare l’origine e, proprio per questo, tutti a Roma a teatro mi prendono in giro.
Al Ventidio Basso ho cantato un flauto magico 3 o 4 anni fa ed è stato molto bello. La rete lirica delle Marche è stupenda e mi piacerebbe che ci fosse una formazione classica nella città più marcata. Quando torno vado sempre a salutare allo Spontini, chiedo e mi informo sul corso di canto lirico che spesso non c’è».
Credi che ci sia stato un avvicinamento del mondo classico alla cultura commerciale, anche grazie ad artisti come i 2Cellos?
«Diciamo che abbiamo iniziato, ma si può fare meglio.
Per preservare questa cultura i teatri si stanno adoperando tantissimo e un esempio è l’opera camion: cantavamo l’opera in giro per la città, quindi per spettatori senza biglietto seduti per strada e nessuno ha abbandonato la piazza.
Mi hanno colpito nello specifico i bambini con gli occhi incollati al palco, anche davanti ad un’opera come “Rigoletto”, non proprio semplice e commerciale».
Sogno nel cassetto?
«Ad oggi mi piacerebbe prendere per mano i ragazzi e agire come è stato fatto con me. Ho avuto qualcuno che mi ha saputo guardare dentro e mi ha fatto capire il valore che avevo. Quest’arte, questa musica e questo dono che ho dovuto saper riconoscere con tanta fatica mi permette di guardare, esplorare, sognare e penso che la cosa più grande sia poter restituire tutto questo. Scoprirci insieme insomma.
Ho maturato questo pensiero nell’ultimo periodo poiché per fare questo mestiere devi fare un lavoro su di te costante: il cantante fondamentalmente è una persona molto sola a volte, fai tante rinunce, ma ti viene dato tanto».
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