di Stefania Mistichelli
Nidi privati aperti, in tempo di Covid, con un meno quaranta per cento sulle iscrizioni. Un trend registrato anche presso il settore pubblico e che è il segnale di una crisi profonda che investe le famiglie e il lavoro, soprattutto quello femminile.
«Come nidi privati nella Vallata del Tronto – spiega Annalisa Firmani, pedagogista presso il consorzio “Il Picchio” (che gestisce attualmente l’Agrinido a Pagliare del Tronto e Facciamo Centro a Villa S. Antonio) e referente sul territorio marchigiano del Comitato Educhiamo – non abbiamo mai registrato grandi liste d’attesa e questo è già un segnale di depressione economica.
Infatti, se in una famiglia non lavorano entrambi i genitori, non ci sono le risorse per iscrivere i figli al nido. Con la pandemia la situazione è peggiorata. Noi come consorzio Il Picchio abbiamo perso due sezioni Primavera su quattro (in particolare quelle di Malaspina e Luciani non sono ripartire, per motivi di redistribuzione interna degli spazi utile a garatire il giusto distanziamento, mentre sono state confermate quelle di Monticelli, ndr) e a Facciamo Centro abbiamo diciotto iscritti su una capienza di ventotto bambini. L’Agrinido con i suoi quattordici posti è al completo, vista anche la tipologia stessa del servizio: i bambini qui trascorrono molto tempo all’aperto ed è questo, oggi, che cercano i genitori».
Nonostante il bonus Inps, che è stato quasi raddoppiato, la paura e la crisi incidono gravemente sui bilanci degli asili privati.
«In questi giorni, come capita sempre in questo periodo, stiamo avendo qualche richiesta di informazione e qualche nuovo iscritto – continua Annalisa Firmani – però la situazione rimane difficilissima.
Al calo delle rette, infatti, non corrisponde una diminuzione delle spese, visto che le educatrici, per garantire le famose “bolle”, sono le stesse, come rimangono gli stessi, anzi si alzano, i costi di gestione».
Per ogni sezione, infatti, per limitare la diffusione del contagio, va individuata un ingresso, uno spogliatoio, un refettorio e delle maestre dedicate, per non parlare dei presidi di protezione e della spesa in disinfettanti e pulizie.
«Per coprire in parte le rette mancate durante il lockdown, sono arrivati ora i contributi – afferma – pari a circa duecento euro a bambino. Una cifra però insufficiente se pensiamo che dovrebbe coprire il periodo da marzo a giugno e che, per un tempo pieno e comprensivo di mensa, la tariffa per un mese è intorno ai quattrocento euro. Ci sono stati anche contributi per i Comuni, che però avrebbero dovuto rimborsare ai genitori quanto speso per il nido, ma noi non abbiamo preteso rette nei mesi di chiusura. Per questo, con il Comitato, lavoriamo per avere regole certe, in modo che sia chiaro anche come vengano distribuite le risorse».
L’azione che il comitato Educhiamo sta portando avanti, infatti, è quella di promuovere un sempre maggiore sostegno ai nidi, in modo da favorire l’impiego femminile.
«Posti ce ne sono tanti – aggiunge – e se ne potrebbero creare, se solo si siglasse un’alleanza tra i Comuni e i gestori di nidi, spesso purtroppo in conflitto, per pretendere insieme maggiori fondi alle regioni.
In questo periodo, ad esempio, stiamo recensendo tutti i posti disponibili, perché siamo convinti che l’unico modo per abbattere la povertà educativa sia finanziare tutti questi posti, renderli accessibili e gratuiti per tutti, come vorrebbe la legge 0-3, che pone le basi per lo stesso percorso fatto trent’anni fa dalle scuole dell’infanzia, diventate libere e gratuite in tutta Italia.
Le regioni di fronte a questi grandi numeri, perché i numeri dell’accoglienza sono alti, saranno costrette ad occuparsene. Insomma, va elaborato un sistema pubblico privato che già esiste sul territorio: i Comuni hanno la formula in tasca, visto che tutti i nidi, anche quelli comunali, sono gestiti da cooperative. Il problema è che non vengono girati ai Comuni i fondi necessari per supportare tutti i nidi. Come comitato Educhiamo stiamo lavorando per questo».
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