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Alla scoperta della fornace
intermittente di Castel Trosino

ASCOLI - Tra i tesori del suggestivo borgo ecco la struttura situata in prossimità dell’area golenale del Ca­stellano, su un’ansa del corso d’acqua. Costruita a poche decine di metri dalla riva e raggiungibile con un comodo sentiero tra gli alberi, serviva per la produzione della calce
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L’arcigno profilo di Castel Trosino quasi come un’opera grafica

testo e foto di Gabriele Vecchioni

Qualche tempo fa, per conto dell’Uplea, benemerita associazione culturale ascolana (da circa un anno in stand by per le vicende legate alle restrizioni per la pandemia da Covid-19), io e l’amico Narciso Galiè dedicammo un volume a Castel Trosino, borgo posto su una rupe di travertino, a guardia della strada che da Ascoli sale verso i Monti della Laga. Di Castel Trosino (Castielle per gli ascolani) ci siamo occupati anche in un articolo (leggilo qui); si tratta di un luogo a pochi chilometri dalla città (è una sua frazione) ma totalmente immerso in un contesto naturale “selvaggio” tanto da essere percepito come luogo “altro”.

La rupe di travertino e l’invaso di Casette

Nell’Introduzione al volume scrivemmo che «Castel Trosino è il punto d’incontro tra la stretta valle del Castellano e le prime alture della catena appenninica. Il borgo, circondato da rilievi e dalle anguste vallette dei fossi che confluiscono nel corso d’acqua principale, è una peculiarità territoriale ben diversificata dal popoloso fondovalle del capoluogo piceno e dalle colline coltivate che lo circondano».

Il luogo è ricco di emergenze storiche e naturalistiche: una per tutte, il sito della necropoli barbarica (articolo precedente, leggilo qui); questo breve pezzo è dedicato a un’opera “minore”, un vero e proprio monumento al lavoro, umile ma prezioso, di quanti si occupavano della produzione della calce, materiale necessario per l’edilizia.

Eugenio Battisti ha scritto (1985) che «la funzione primaria dell’archeologia industriale è quella di impedire che tutto si dissolva in macerie, ruggine, marciume, cioè che si trasformi inevitabilmente in storia orale, impedire che il passato sia attingibile solo più attraverso documenti cartacei o immagini fotografiche. Ed è assurdo che questo debba capitare proprio alla storia del lavoro, cioè di ciò che per definizione è greve, pieno di rischio, logorante e punizione biblica collettiva».

Le rive del Castellano vicino alla fornace

Quella di sottrarre all’oblio le testimonianze archeologiche del lavoro è un’operazione necessaria, per le ragioni di memoria storia più volte ricordate negli articoli: il restauro, la conservazione e la fruizione culturale del patrimonio storico del territorio costituiscono la piattaforma sulla quale fondare l’identità sociale.

L’argomento della trattazione è la cosiddetta fornace intermittente, situata in prossimità dell’area golenale del Ca­stellano su un’ansa del corso d’acqua, costruita a poche decine di metri dalla riva e raggiungibile con un comodo sentiero tra gli alberi.

Le strutture prima del restauro (foto dal tabellone illustrativo, presente in loco)

La struttura produttiva (la fornace vera e propria, la casetta per i lavoranti e la vasca per lo spegnimento della calce) ha subìto un recente restauro conservativo, nel­l’ambito di un ar­ticolato progetto educativo e costituisce un singolare complesso testimoniale di archeologia industriale che ha funzionato a pieno ritmo fino a metà del secolo scorso, sotto la guida diretta del suo proprietario, Biagio. Era una fornace del tipo “a fuoco intermittente” (tra una cottura e la successiva doveva essere spenta), per la produzione di laterizi e della calce viva, a partire dalla calcinazione di rocce calcaree. Quest’ulti­ma produzione è sicuramente quella più interessante.

La fornace restaurata. In alto, la casetta di servizio

La produzione della calce. La fornace per la produzione della calce consisteva in una struttura a pozzo alta circa 5 metri e larga 2 metri, parzialmente scavata nel terreno e “foderata” di materiale refrattario. Alla base, un’ampia apertura (la “bocca di fuoco”), consentiva di caricare il combustibile, costituito da tronchetti di legno. So­pra il legname era costruita una vòlta di sassi calcarei e, ancora sopra, avveniva il caricamento del materiale da cuocere. Il fuoco rimaneva acceso per diversi giorni (circa una settimana e doveva essere sorvegliato continuamente) e la temperatura arrivava a 800°C circa. Il termine della cottura si controllava gettando un sasso calcinato in un recipiente pieno d’acqua: una reazione tumultuosa era il segnale dell’avvenuto processo di decomposizione della calcite (minerale composto da carbonato di calcio neutro).

Il proprietario dell’opificio, Biagio

Alle alte temperature (come quelle raggiunte in una fornace tipo quella in discussione), il carbonato di calcio si dissocia in ossido di calcio e anidride carbonica (sostanza gassosa): il prodotto finale è la calce viva. A contatto con l’acqua, l’os­sido di calcio diventa idrossido di calcio (calce idrata o calce spenta) con una reazione fortemente esotermica (sviluppo di calore).

La calce è uno dei materiali più antichi e utilizzati nell’edilizia (i Romani lo usarono regolarmente dal III secolo a. C., e i Greci ancor prima) come materiale legante e protettivo. Come legante è utilizzato per la costituzione delle malte aeree (che induriscono a contatto con l’aria), impastando la calce con sabbia, o per quelle idrauliche (che induriscono anche in assenza di aria), insieme alla pozzolana o, in tempi remoti, con argilla o frammenti ceramici.
Nella fornace di Castel Trosino, dopo la delicata e operazione di estrazione della calce viva dal forno, lo spegnimento avveniva in un’apposita vasca, nei pressi della casetta di servizio.

Escursionisti all’interno della struttura produttiva (ph N. Cesari)

La produzione di laterizi. Nella fornace si producevano anche laterizi (dalla voce latina later, mattone). Già da metà Ottocento erano in funzione i forni Hoffmann a ciclo continuo, per grosse e più variate produzioni ma, per le necessità locali, le fornaci come quella di Castel Trosino (che, come già ricordato, era una fornace intermittente di tipo romano) erano sufficienti.

Si producevano pianelle (mattoni) e coppi, preparati mediante utilizzo di forme metalliche (l’uso di forme lignee per la preparazione di mattoni da cuocere in forno – la “foggiatura” o “formatura” – è attestata fin dal Medioevo). La qualità del laterizio prodotto dipendeva dalla posizione dello stesso nella camera del forno; quelli più vicini al fuoco, duri e fragili, erano denominati “ferrigni”, quelli più vicini alla bocca di carico, poco cotti, “albasi”.

La vasca di spegnimento della calce viva

Un’ultima riflessione. Nonostante la povertà della struttura, questa fabbrica primitiva mantiene intatto il fascino del rapporto della fase produttiva con la natura: è lontana dalle case per evitare ogni pericolo a cose e persone e, al tempo stesso, vicina alle fonti di approvvigionamento, legna da ardere e acqua del fiume e roccia calcarea.
Nonostante la ripetizione di un concetto già espresso, è bene ricordare che la conservazione e la cura di artefatti simili non sono operazioni fini a sé stesse ma servono per la memoria storica, senza la quale non c’è identità (sociale).

Disegno schematico della fornace; a destra, la camera di carico


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