Il 3 settembre prossimo verrà ricordato il tragico epilogo del generale di Corpo d’Armata Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo, uccisi in un agguato mafioso a Palermo, 40 anni fa.
Figlio d’arte (suo padre, Romano, era ufficiale dell’Arma dei Carabinieri), frequentò la Scuola Allievi Ufficiali di Spoleto, in seguito prestò servizio in fanteria come sottotenente nel 120° Reggimento Fanteria “Emilia”, partecipando per dieci mesi all’occupazione del Montenegro, per la quale ricevette due Croci di Guerra al Valore. Nell’ottobre del 1942, transitò nei Carabinieri Reali.
La sua vita nell’Arma dei Carabinieri cominciò nel dicembre 1942 proprio a San Benedetto, suo primo incarico da giovane ufficiale, quando gli venne assegnata la guida dell’allora Tenenza e dove rimase fino alla proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943.
Trovandosi nella provincia di Ascoli, venne affrontato dai partigiani comunisti della zona che temevano che fosse il responsabile del blocco dei rifornimenti di armi che gli Alleati di tanto in tanto riuscivano a spedire via mare.
Alla domanda “Lei con chi sta, tenente, con l’Italia o la Germania?”, Dalla Chiesa rispose offrendo la sua collaborazione, ma a causa del suo rifiuto di collaborare nella caccia ai partigiani, fu preso di mira dai nazisti e fu costretto a fuggire.
Entrò quindi nella resistenza italiana, operando in clandestinità nelle Marche, unendosi alla “Brigata Patrioti Piceni” di stanza a Colle San Marco di Ascoli. In seguito, divenne uno dei responsabili delle trasmissioni radio clandestine di informazioni per gli americani.
Da lì, un seguito di successi, ma anche di fatica e sacrifici: impegno contro il banditismo in Campania ed in Sicilia, sostegno alle popolazioni del Belice colpite dal terremoto del 1968, lotta alle Brigate Rosse, smantellando diverse cellule terroristiche e poi lotta senza quartiere contro la mafia in Sicilia che, purtroppo, gli risultò fatale.
Fu anche vice comandante dell’Arma dei Carabinieri, come lo era stato il padre. Si trattava, allora, della più alta carica raggiungibile per un ufficiale dei Carabinieri visto che all’epoca il comandante generale dell’Arma proveniva dall’Esercito. Rimase in tale incarico fino al 5 maggio 1982. Nominato prefetto da pochi mesi, venne assassinato a Palermo il 3 settembre 1982.
Nel Quarantesimo dalla sua morte, l’omaggio più bello è sicuramente quello di ricordarlo attraverso la sua frase più celebre: “Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli”.
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