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Monti della Laga: dal popolamento al rischio dell’abbandono

STORICA area di confine tra entità statuali diverse e, dall’Ottocento, tra realtà amministrative all’interno di uno Stato unitario, ha sviluppato un sistema insediativo originale: sul territorio insiste una miriade di nuclei abitati, molti dei quali oggi spopolati
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Il nucleo di Agnova di Cortino

 

di Gabriele Vecchioni

 

(foto dell’autore e di Roberto Gualandri)

 

L’area montana della Laga, al confine tra le province di Ascoli Piceno e Teramo, è in parte (ri)compresa in quella del Parco Nazionale Gran Sasso-Monti della Laga. In questo articolo ci occuperemo dell’aspetto antropico di questa bellissima area, un angolo di wilderness che attira escursionisti esigenti alla ricerca del respiro primordiale della natura.

 

Macchiatornella di Cortino, a sinistra l’abitato di Padula

Nel territorio della Laga non esistono più i paesaggi d’antan, perché gli interventi dell’uomo (strade, linee elettriche, acquedotti e… case) hanno trasformato gli ambienti e gli scenari antichi. Si tratta, però, di un contesto paesaggistico fondamentalmente integro, ancora non del tutto piagato dalle invasive sovrastrutture della nostra “civiltà”; i paesaggi, suggestivi e abbondantemente boscati, meritano di essere visitati (e protetti).

 

I Monti della Laga costituiscono un’area ancora relativamente poco conosciuta, soprattutto per la difficoltà delle comunicazioni, con strade non proprio facili da percorrere. Il territorio, qui come in un’altra area del Parco Nazionale (il massiccio del Gran Sasso), raggiunge elevazioni pronunciate; la terza zona dell’area protetta, quella dei Monti Gemelli, si ferma poco sotto i 2000 m. La diversità geologica (e geomorfologica) ha portato, però, a differenze sostanziali dal punto di vista dell’insediamento antropico. Vediamo di analizzare in maniera più approfondita questa caratteristica, cominciando dall’area del Gran Sasso.

 

La chiesa della Santissima Maria Assunta (origine Sec. XII) a Padula di Cortino (dal 1988, Santuario della Madonna dei Monti della Laga)

Il massiccio calcareo del Gran Sasso presenta un paesaggio aspro e desolato in altura e, alle pendici, una grande ricchezza di sorgenti che hanno favorito lo sviluppo della vegetazione (e dei pascoli) sulle fasce pedemontane di minor quota: è qui che si sono sviluppati, preferibilmente, gli insediamenti umani. Una situazione simile si riscontra anche sull’altro “gigante” appenninico, la Majella, e sui più vicini Monti Sibillini. Sulla Laga, invece, la conformazione del territorio (poggi collinari e declivi dolci dei rilievi) ha permesso un insediamento di centri abitati di piccole dimensioni, sparsi in maniera più o meno uniforme: «Nella immensa distesa di boschi di cui la Laga era, ed è tuttora, ricoperta, l’uomo ha cercato di posizionarsi nei punti più favorevoli per utilizzare al meglio le ricchezze naturali a disposizione. Ciò ha fatto sì che sulla Laga si formassero una infinità di piccoli nuclei abitati disseminati ovunque sul territorio in modo quasi uniforme (F. Vallarola, 1996)».

 

Pagliaroli di Cortino, a destra i resti del tempio italico (sec. II AC?)

Le case, costruite spesso in pietra locale, seguono le forme naturali, adagiandosi sui pendii collinari, con tipici andamenti a gradoni, a scendere verso la valle sottostante. Immancabile la chiesa, dalle semplici linee architettoniche: edificio sacro ma anche, e soprattutto, centro di aggregazione della comunità. Le costruzioni moderne sono, per lo più, case per fine settimana o, comunque, per soggiorni temporanei, di scarso valore architettonico ma che non modificano la percezione di “paesaggio naturale” che avverte il visitatore.

 

La presenza di uno stanziamento diffuso sul territorio ha implicato condizioni di vita peculiari per la popolazione locale. Nelle aree del Gran Sasso (e simili) si è sviluppato il fenomeno dell’incastellamento, legato anche alla condizione di territorio intensamente feudalizzato. Sui Monti della Laga si svilupparono, invece, forme di amministrazione più partecipate, che si potrebbero definire “democratiche”.

 

Case di Collegrato di Valle Castellana

L’incastellamento prevedeva opere di difesa: la presenza di un castello e di una cinta muraria; il centro aveva una struttura chiusa. Nei nuclei della Laga questo non avveniva: i paesi avevano strutture aperte, senza fortificazioni; spesso, non c’era nemmeno una torre di avvistamento per controllare avvicinamenti di malintenzionati. Il motivo era riconducibile alla morfologia tormentata del territorio e alla mancanza di vie di comunicazione comode. È ancora Vallarola che così lo sintetizza: «Questa difesa naturale ha fatto sì che eserciti invasori rinunciassero alla conquista di territori così difficili da attraversare e non abbastanza ricchi da attirarne l’intervento».

 

I centri dispersi, a causa della loro ubicazione e del loro isolamento, dovevano necessariamente essere autonomi. I borghi della Laga erano spesso isolati tra i boschi, derivati dalle fare longobarde; il toponimo fara (che si ritrova in tutta Italia, nelle località che videro il dominio longobardo) indica che in quel punto esisteva un villaggio popolato da uomini liberi con capacità di autodifesa. È interessante l’affermazione di Mosé e Brunelli che, per il Piceno meridionale, scrivono che «la dominazione longobarda ha lasciato segni, ancor oggi evidenti, di una civiltà “antiurbana” […] piccoli centri amministrativi e militari diffusi capillarmente nel territorio (2002)».

 

Vallepezzata di Valle Castellana

L’isolamento delle popolazioni ha favorito lo sviluppo della cultura originale di amministrazione territoriale che abbiamo introdotto in precedenza: erano i cosiddetti “Comuni rurali”. Chi si è occupato dell’argomento ha individuato nella vicinanza alle zone di confine il motivo di questa relativa indipendenza dal potere centrale. I territori di questi comuni erano le Università (che, nelle Marche meridionali, erano denominate generalmente Comunanze), sorta di proprietà comune di boschi e pascoli: un’organizzazione sociale che anticipava di diversi secoli (siamo nel sec. XI) quelli che sarebbero stati i comuni. L’evento che svuotò i paesi della Laga, almeno quelli che gravitavano sulla città di Teramo, fu il sacco e l’incendio della città aprutina (1152): per ricostruirla e ripopolarla, il vescovo attinse alle risorse dei paesi montani e obbligò al trasferimento in città dei suoi abitanti.

 

Architravi incisi in una frazione abbandonata

Con un salto temporale di diversi secoli arriviamo al giorno d’oggi. La realtà dei paesi abbandonati è sotto gli occhi di tutti. Vediamone brevemente le cause.

 

Le attività economiche dei paesi della Laga sono state, per secoli, il lavoro nei campi e la pastorizia, la produzione della legna da ardere e del carbone, attività diventate, al giorno d’oggi, quasi museali. Le produzioni industriali e la ridotta importanza delle attività casearie (soppiantate da quelle degli allevamenti stanziali) hanno costituito una delle concause dell’abbandono dei paesi dell’entroterra ma, in realtà, esso era già iniziato nel secondo dopoguerra (ed è proseguito fino agli anni 60-70 del Novecento), con l’emigrazione verso aree che offrivano maggiori opportunità di lavoro e una maggiore facilità di vita. Dagli anni ‘50 del Novecento, si sono attivate dinamiche demografiche pregiudizievoli per la sopravvivenza dei villaggi (esodo rurale, redistribuzione della popolazione, urbanizzazione diffusa, sviluppo dei trasporti). Un’altra fase rimonta agli anni 1960-70 (boom economico, inurbamento). Il fenomeno dell’abbandono ha subìto poi, in alcuni casi, un’accelerazione per gli eventi sismici recenti.

 

Resti di una costruzione a secco a lato del sentiero del Petrienno, nell’Acquasantano

Quelli della Laga sono borghi antichi, situati all’interno del territorio e caratterizzati da una certa lontananza dai più grandi centri urbani. Essi hanno subìto (e possono subire) diversi tipi di dismissione: l’abbandono totale, con la conseguente mancanza di manutenzione che porta alla distruzione totale dei nuclei, con la vegetazione che riconquista il “suo” territorio; l’abbandono parziale per il disagio abitativo, legato alle difficoltà di comunicazione (la mancanza di strade o le condizioni pessime delle stesse), che porta a un lento, graduale spopolamento, fino ad arrivare all’abbandono.

 

La costruzione di strade e la diffusione dell’auto, anziché favorire la perma­nenza nei luoghi d’origine, paradossalmente ne ha favorito l’abbandono, per la facilità di spostamento e di raggiungimento di località più vivibili; nei borghi montani sono rimasti solo pochi an­ziani. Una considerazione dell’antropologo Vito Teti chiarisce, però, che «Contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muoiono mai. Si solidificano nella dimensione della memoria di coloro che vi abitavano, fino a costituire un irriducibile elemento di identità»: chi frequenta quei luoghi conosce l’attaccamento dei vecchi residenti alle località di origine. I segni che l’uomo ha lasciato sul paesaggio non sono scomparsi, ma sono stati fissati dall’abbandono: le case, le stalle, le chiese in rovina, i sentieri che la natura sta (ri)conquistando raccontano una storia marginale e guidano l’escursionista nella scoperta della cultura della ”montagna minore”. È sempre interessante conoscere queste realtà perché, come scrive ancora Teti, «…noi siamo il nostro luogo, i nostri luoghi, tutti i luoghi, reali o immaginari, che abbiamo vissuto, accettato, scartato, combinato, rimosso, inventato. Noi siamo anche il rapporto che abbiamo saputo e voluto stabilire con i luoghi (2004)».

 

Una capanna pastorale di pietra al Fosso di Noce Andreana (foto C. Ricci)

Non è questa la sede per approfondire il tema dell’abbandono e del recupero del patrimonio costituito dai “paesi dismessi” ma è necessario affrontare il problema: solo poche associazioni e pochi volonterosi lo fanno, impegnando il loro tempo per cercare di arginare l’emorragia, organizzando incontri, festival ed eventi culturali, per accendere i riflettori sui borghi dell’entroterra a rischio. I centri della Laga, inseriti in un magnifico contesto ambientale, fatto di panorami incantevoli e di centri storici antichi, popolati da persone in numero ridotto ma sempre disponibili all’accoglienza del “forestiero”, meriterebbero una maggiore attenzione da parte i tutti.

 

Serra di Rocca S. Maria, la chiesa del Santissimo Salvatore

Il termine “forestiero” indicava quelli che entravano nel villaggio uscendo dai boschi che lo circondavano (la “foresta”): era gente sconosciuta, da considerare con una certa diffidenza. Oggi non è più così e i “forestieri” sono persone alla ricerca delle atmosfere magiche e della poesia delle cose perdute che questi luoghi sanno offrire.

 

Concludiamo questo breve report con le parole di Cesare Pavese che, ne La luna e i falò (1949) scrive: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».


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