di Gabriele Vecchioni
Carlo Levi, pittore, medico e scrittore antifascista, esiliato dal Regime ad Aliano di Matera, in Basilicata (allora denominata Lucània), nella sua opera più famosa (Cristo si è fermato a Eboli) dedicò al paesaggio calanchivo, che fa da sfondo ai personaggi del suo romanzo, passi memorabili che possono essere validi anche per il territorio a noi più vicino, nonostante la distanza geografica (e culturale) dei due ambienti. Queste le sue parole: «…e d’ogni intorno altra argilla bianca senz’alberi e senza erba, scavata dalle acque in bocche, in coni, in piagge d’aspetto maligno, come un paesaggio lunare… e d’ogni parte non c’erano che precipizi di argilla bianca, su cui le case stavano come liberate nell’aria…».
Le parole di Levi sembrano descrivere perfettamente località come Ripaberarda e Porchiano, costruite letteralmente sui calanchi (che i locali chiamano “coste”, li coste).
Il paesaggio dei calanchi viene percepito come “forte” per l’impressione di naturalità primitiva che esso dà; in realtà, esso è fragile perché soggetto, oltre che ai capricci del clima e alla natura litologica dei suoi componenti, anche all’intervento antropico. Il suo maggior nemico è però l’indifferenza, il modo in cui viene visto – distrattamente – dall’osservatore: occorre interiorizzare il concetto che i calanchi non costituiscono il paesaggio “da soli”, essi lo sono insieme alle colline, ai campi coltivati, ai paesi e alle case isolate.
Giovanni Azzena ha scritto che il paesaggio è il vólto del territorio e tutta la sua storia ne è parte integrante. Lo stesso studioso scrive che «… giacciono, immutabili solo in apparenza, i grandi paesaggi “storici”, sulla cui smisurata epidermide “agraria” compaiono ogni giorno piccoli esantemi snaturanti, fatti di capannoni, serbatoi, ripetitori, rotatorie; di abbandoni terminali o di ripristini volgari; di campi da golf. Sintomi in rapida propagazione di una malattia già diffusa in profondità. […] Una delle opzioni salvifiche più banali è quella di un generico richiamo al “naturale” (non proprio il richiamo della foresta, ma quasi). Anche Sereni ricorre a Leopardi per l’epigrafe della sua opera più famosa, scegliendo un brano adatto a mostrare le lacune di questa visione: “Ora in queste cose, una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è; anzi, è piuttosto artificiale: come a dire, i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine, i fiumi stretti infra certi termini e indirizzati a certo corso, e cose simili, non hanno quello stato né quella sembianza che avrebbero naturalmente. In modo che la vista di ogni paese abitato da qualunque generazione di uomini civili, eziandio non considerando le città e gli altri luoghi dove gli uomini si riducono a stare insieme, è cosa artificiata e diversa molto da quella che sarebbe in natura”».
I media spingono per «l’autoriconoscimento in un’identità globalistica» ma è importante avere una percezione culturale del paesaggio, per ricostruire o consolidare i legami identitari con i luoghi del quotidiano.
La grande trama del paesaggio delle colline picene è costituita da armoniosi profili di colline, da macchie di bosco, vigneti, pascoli e campi coltivati: è l’immagine di una natura impregnata delle vicende dell’uomo, rimodellata attraverso un lavoro paziente di secoli. Oltre a questo paesaggio “non grandioso” va considerata anche la componente della natura incontaminata, qui rappresentata dalle “ferite” dei calanchi. Le nuove strutture ordinate dei filari di ulivi e di viti contrastano, infatti, nettamente con le forme spontanee della vegetazione arbustiva e arborea e quella “selvaggia” dei calanchi.
Il territorio calanchivo è un territorio dinamico, nel senso che è sempre presente il rischio di frane, con danneggiamento del costruito (case e monumenti). La pericolosità del fenomeno è chiara se si pensa che diversi centri storici rischiano di essere seriamente deteriorati per l’avanzare dei calanchi. L’abbassamento del rilievo spesso innesca movimenti franosi che minacciano l’abitato: per citare due paesi vicini, Castignano e Ripaberada sono “puntellati” da robusti muraglioni di sostegno. A proposito del già citato borgo di Porchiano, frazione di Ascoli sulle pendici meridionali del Monte dell’Ascensione, le frane hanno sempre costituito un problema: già all’inizio del Novecento, Roberto Almagià scriveva di «una cresta larga in qualche punto meno di tre metri, su cui passa la mulattiera da Porchiano ad Ascoli, malamente sorretta da steccati, e destinata in breve a scomparire».
Nel 2008 si tenne, a Ripaberarda, un interessante convegno. Uno dei relatori più apprezzati fu il compianto Bruno Egidi che ebbe a dichiarare: «Se pertanto il Consorzio di Bonifica del Tronto, all’inizio degli anni Sessanta, trattava delle questioni di sistemazione idraulica descrivendo ”terreni pliocenici con banchi variamente inclinati di argille, la distruzione dell’antico bosco, ed il lavoro delle acque superficiali, hanno prodotto la formazione del calanco. […] Accanto alla meravigliosa fertilità della Valle del Tronto si aprono improvvisi scenari di squallore lunare. Siamo nel regno del “calanco”, un cancro inesorabile che divora la terra”, vent’anni dopo un altro documento finalizzato al riassetto territoriale deve ancora constatare che “ogni anno vaste zone di terreno scoscendono per aumentare la superficie dei calanchi e l’insieme dei valloni, valloncelli e fossi divisi dalle bizzarre creste che caratterizzano le dilavate e ruinanti formazioni argillose forma un panorama grandioso e terribile”».
Dal secondo Dopoguerra del secolo scorso (anni ‘50), in molte parti d’Italia, molti terreni vicini ai calanchi sono stati rimodellati e trattati in maniera da essere utilizzati per la produzione agricola. Lo spianamento dei calanchi innesca fenomeni erosivi, a causa della condizione oligotrofica dei suoli argillosi. Il processo si “interrompe” quando la percentuale di sostanza organica supera il 2%, ottenibile con ripetute concimazioni. La trasformazione delle aree calanchive in aree produttive è ben visibile in Toscana, nelle cosiddette “Crete senesi”. In altre zone (soprattutto nell’Italia meridionale), invece, l’erosione dei calanchi è continuata, per le ridotte lavorazioni agricole e per l’intensità dei fenomeni climatici.
La scomparsa delle aree calanchive costituisce una minaccia al patrimonio culturale del Paese. Da tempo si assiste, infatti, a un processo di omologazione del paesaggio, un cambiamento che non rispetta le peculiarità del territorio che sono non solo naturalistiche ma anche storiche e culturali: gli effetti si manifestano in una riduzione accentuata della biodiversità e un allarmante impoverimento del patrimonio paesaggistico e culturale locale.
Altre aree calanchive. Quando ad Ascoli si pensa al territorio dei calanchi si pensa all’Ascensione, la superficie di questo rilievo è “piagata” dalle ferite di questo fenomeno naturale. In provincia di Ascoli Piceno ci sono però altre zone nelle quali è possibile incontrare queste manifestazioni geomorfologiche, anche spettacolari. Ci si riferisce, in particolare, a siti dell’Offidano; ai calanchi di San Savino, nel territorio del comune di Acquaviva Picena che si affaccia sulla Val Tesino; all’area di San Rustico di Ripatransone, che presenta forse i calanchi più scenografici, oltre che per la loro configurazione morfologica, soprattutto per il magnifico colore latteo del substrato.
Esistono anche altre zone calanchive, di ridotta superficie e ormai quasi colonizzate dalla vegetazione, in altri luoghi, tra i vigneti di Cossignano o nei fossi che da Acquaviva Picena scendono verso la costa adriatica o nella campagna ubertosa di Ripatransone. La loro ridotta estensione li rende, però, meno interessanti di quelli che abbiamo elencato sopra.
Anche nel vicino Abruzzo, sulla destra orografica del Tronto, possono apprezzarsi aree calanchive, meno spettacolari ma abbastanza estese.
I contadini del Piceno hanno sempre convissuto con l’ambiente difficile dei calanchi, lavorando il terreno fin dove il buonsenso lo permetteva, arrivando al ciglio delle aree scoscese: la presenza di casolari e costruzioni di servizio abbandonati stanno a testimoniare questa loro “battaglia” quotidiana.
Considerazioni conclusive. Nel comprensorio dei calanchi la natura e la storia si fondono in un unicum straordinario: è auspicabile la protezione di un’area così interessante con la costituzione definitiva di un Parco dei Calanchi, sul modello di altri simili già nati in Italia: potrebbe essere il segnale di un modo diverso di vivere il territorio, valorizzando le emergenze naturali e paesaggistiche con prospettive con solo culturali ma anche occupazionali.
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