di Walter Luzi
Maria Gina Stipa è una di quelle maestre che non si è mai seduta alla cattedra. Le lezioni le ha fatte sempre accovacciata in mezzo ai banchi dei suoi bambini. È stata una di loro. Sempre. Nelle prime classi, che prediligeva, ha tenuto spesso i bambini più sensibili sulle proprie ginocchia. Qualcuno di quei piccoli la chiamava, inavvertitamente, mamma, o nonna. L’amore sanno riconoscerlo subito i bambini. A qualcun altro, più bisognoso di calore umano, ha tenuto ben stretta la mano nella sua. A lungo. Senza stancarsi mai per prima. Qualcuno le serberà affetto sincero, e riconoscenza infinita, per tutta la vita. Solo per questo.
«Se non ci fossi stata tu, maè, io avrei sicuramente fatto una brutta fine…».
Se lo è sentita dire mezzo secolo dopo da uno di quei bimbi difficili a cui ha insegnato a leggere e a scrivere. Ma, soprattutto, a vivere. Ad amare. Viene tutto più facile quando ci si sente amati. Importanti. Preziosi. Protetti. Quando anche una maestra elementare, se è innamorata del proprio lavoro, può farti scoprire l’importanza della fiducia. Negli altri.
Ma, soprattutto, in sé stessi. Quando, per dirla con le parole di Massimo Gramellini «…la mia maestra aveva un cervello a forma di cuore. Noi eravamo tutti suoi figli adottivi. Troppi per ogni madre, ma non per lei, che riusciva a leggere l’anima di tutti…».
La campagnola
Maria Gina nasce a Poggio di Bretta il 27 marzo del 1940 prima di Giorgio e Silvana. Il papà Armando lavora al molino e pastificio, la mamma, Letizia, è una sarta. Frequenta le Elementari, con la maestra Gina Risponi, nella scuola della sua frazione. La sua maestra, in quinta, si chiama Nice Mattioli. Era venuta da Fabriano per cominciare ad insegnare a Fornisco di Valle Castellana, dove conoscerà Nicola Santini, il suo futuro marito. Si presentò, a metà degli anni Trenta, il primo giorno di scuola, con le sue décolleté bianche, suscitando ilarità in un paese di montagna, dove giravano tutti con gli scarponi chiodati. All’esame di ammissione alla scuola media la prepara la mitica maestra Carla, all’anagrafe Carla Di Salvia in Urbani, che era già stata l’insegnante di suo padre.
Quell’esame di quinta elementare fu un successo per questa bambina di campagna arrivata fra i lupi di città. «Mi interrogarono sulla nostra bandiera – ricorda Maria Gina – e io feci riferimento al rosso del sangue dei nostri martiri caduti in guerra, il bianco come il candore delle nevi delle nostre montagne, il verde dei prati delle nostre colline. Piacque molto».
Le Medie e Magistrali le frequenta all’Istituto ex “Forti”, ora San Domenico, alla Piazzarola. Scende a piedi, per tre chilometri, ogni mattina, lungo la strada Provinciale Ripaberarda, ancora brecciata, fatta di polvere, e fango quando piove, fino a Brecciarolo, dove passa la corriera dell’Int. Si porta un paio di scarpe di ricambio nella borsa Maria Gina, perché, unica campagnola fra tutte cittadine, si vergogna ad entrare in classe con quelle tutte infangate. E deve impegnarsi molto, per risolvere un problema in più.
«Quando ho iniziato le Medie in Ascoli ho dovuto superare anche il gap linguistico – ricorda – passare alla traduzione fra il dialetto di campagna e l’italiano. Mi aiutò, provvidenzialmente, il vocabolario a capire cosa fosse, ad esempio, il salvadanaio. Io l’avevo sempre chiamato …la cuccìola».
Maria Gina, la campagnola, riesce però, grazie alle sue profonde doti umane, che già traspaiono, a legare molto anche con le altre studentesse cittadine. Con loro stringe amicizie che dureranno una vita intera. Come con tanti altri giovani del paese, con i quali si diletta di anche di teatro sotto la guida di Primo Silvestri. La corte di Emilio Santini, il figlio della sua vecchia maestra Nice, si va facendo intanto, via via, sempre più serrata. Li sposerà, nella loro Poggio di Bretta, Don Amelio Massa, nel 1963. Marco, oggi bancario come il padre, arriva nel 1964. Corrado, che ha seguito, invece, le orme materne dell’insegnamento, nel 1966.
Appena diplomata Maria Gina lavora per tre estati a Porto d’Ascoli, nella colonia estiva di don Paolo Rozzi. Come insegnante, ed assistente, ai bambini. Emilio, il suo fidanzato, è appassionato di fotografia, e lei è, ovviamente, il suo soggetto preferito. Per questo Maria Gina si ritrova oggi un archivio fotografico sterminato. In alcune foto scattate al mare in quel periodo appare quasi come una star del cinema degli anni Cinquanta.
Presto arriva la prima nomina. Il giuramento solenne, in uso allora, lo presta alla presenza del direttore Adello Girolami. Come testimone chiama la sua vecchia insegnante delle elementari, la Risponi, commossa e orgogliosa.
La prima assegnazione provvisoria è nell’Acquasantano, prima di Casette d’Ete, Rosara, Valtesino e, quindi, i sei anni passati a Centobuchi, dove, per la prima volta, trova finalmente classi numerose. Quindi il ritorno, da docente, nella stessa scuola che l’aveva vista giovanissima studentessa. San Domenico, ad Ascoli. Sarà un’altra grossa emozione per lei. Ma il suo lungo cammino nell’insegnamento inizia sui monti della Laga.
Pozza
È qui che ottiene la sua prima assegnazione provvisoria nel 1969. Mimì, il marito, le compra una Fiat 500 attrezzata di quattro gomme chiodate e anche una vanga, per poter spalare, all’occorrenza, la neve. Ad Acquasanta, al bivio della carrozzabile, ancora brecciata, per Pozza, carica su anche l’ufficiale di Posta. Se nevica forte lui le fa da navigatore, indicandole la rotta giusta.
«Quando la neve era alta – ricorda sempre Maria Gina – arrivavamo in paese, magari, alle dieci. Allora la bidella andava a suonare la campana della chiesa, attigua alla scuola. È arrivata la maestra! È arrivata la maestra! Gridava. I bambini saltavano dai loro letti, e si precipitavano in classe. Maè, ma chi gliel’ha fatto fare a venire su con questo tempaccio? Mi dicevano tutti. Ma erano le mie prime esperienze di insegnamento, e sentivo di non potere, non dovere, mancare ai miei bambini. Con tanta buona volontà. Con entusiasmo. Con amore soprattutto. Per loro, e per quel lavoro, che già sentivo come una sorta di missione. Spesso rientravo a casa alle 15, con Mimì sempre ad aspettarmi preoccupato per i miei ritardi».
Il suo ruolino pensionistico, alla fine, parlerà chiaro: ventisei giorni di assenza per malattia in trentacinque anni.
Pozza e Umito. Dieci bambini. Cinque classi. Due aule.
«Misi prima, seconda e terza in una. Quarta e quinta nell’altra – continua Maria Gina Stipa – mi ingegnai per interessarli a piccoli laboratori di pittura e scultura, nell’ultima mezz’ora, dopo le lezioni. I lavoretti, come li chiamavo io. Con il gesso, la creta, la carta, i colori. Loro erano sempre contenti di questo».
Molti di quei suoi primi scolari se li ricorda ancora.
«In prima c’era Annarella – racconta sorridendo – che non riusciva a leggere sui cartelloni che la “i” era la i di “imbuto” e non di ‘mm’ttill’. Così come la “o” non era la o di paparella, ma di “ooooca”. Quando, a San Martino, li portai nel bosco e chiesi che fossero loro ad insegnare qualcosa a me, io fingevo con Annarella di non capire le differenze fra marroni e castagne. Lei mi correggeva ogni volta fino a quando, al mio ennesimo, voluto, errore, sbottò: certo maè che tu sei proprio testona eh! Come te?… Che non leggi la o di oca? Le risposi. Da quel giorno Annarella non sbagliò più a leggere i cartelloni… Le famiglie lassù erano numerosissime, e altrettanto povere – ricorda sempre Maria Gina – maè, si giustificavano le mamme spesso nuovamente incinte, noi quassù non abbiamo la televisione come voi in città, e la sera andiamo a letto presto… I bambini, anche in inverno, venivano quasi tutti a scuola con le scarpe aperte, e le dita che uscivano fuori…». Se ne ricorderà.
Le scarpe della Val d’Ete
A Casette d’Ete, nel 1971, si presenta con il suo primo incarico di ruolo ufficiale. Ci arriva ogni mattina a bordo della sua Nsu Prinz bianca, e ai suoi scolari questo particolare non sfugge. «I bambini – ricorda Maria Gina – mi dicevano: Oh quanto sì poretta maè, a andà in giro co’ ssà macchina…».
In effetti la generale prosperità economica della zona, tradizionalmente legata all’artigianato calzaturiero, permette ben più lussuosi mezzi di trasporto un po’ a tutte le famiglie. Qui, insieme ad una collega, giovane mamma anch’essa, prendono una casa in affitto e vi si trasferiscono per l’intero anno scolastico insieme ai figli.
«La domenica alle funzioni era una sfilata di pellicce – ricorda ancora Maria Gina – e io sfiguravo con il mio cappottino nero. Ma trovai la maniera di impiegare bene almeno gli avanzi di tanta opulenza. Avevo notato che i bambini cambiavano spessissimo le scarpe. Ma di quelle che scartate che ne fate? chiesi un giorno, mica le butterete. Così cominciai a raccattare una parte almeno dei loro sprechi, frutto della esagerata abbondanza. Le pulivo per bene, sostituivo i lacci se ne necessario, le lucidavo, e la domenica riempivo la macchina per portarle a chi ne aveva estremo bisogno…».
Il parroco di Pozza si chiama don Vincenzo Luciani, futuro angelo nei reparti dell’Ospedale “Mazzoni”. È lui a distribuire in chiesa, il giorno dell’Epifania, quelle scarpe quasi nuove a tutti i bambini che ne hanno bisogno. Foto 14
Una festa per tutto il paese. Grazie alla maestra Maria Gina, che li porta ancora tutti nel cuore.
«Quando mi sento giù di morale – confessa – vado a risfogliare gli elenchi con i nomi dei miei scolari. Li ho tenuti di tutte le mie classi. Rileggo qualcuno dei loro temi, che ho conservato. Le loro lettere che mi hanno inviato, a distanza anche di molti anni. Risfoglio gli album delle tante foto scattate insieme a loro. Ho una nipote che vive a Pozza. Ogni volta che la vedo le chiedo dei miei bambini. Sono quasi tutti diventati nonni, nel frattempo…».
Il treno
Le gite scolastiche d’istruzione, sia nelle vicinanze, che nelle grandi città d’arte, sono una costante del suo programma didattico. Come le mascherate a Carnevale, in classe, e in Piazza del Popolo. E poi le gite nelle fattorie di campagna, a toccare con mano agnelli, conigli e galline, animali sconosciuti ai bambini nati e cresciuti nelle città.
Loro, quasi a voler ricambiare tanto amore e rispetto, le portano in classe il pane con la salsiccia. Una volta in una lettera di fine anno ai suoi allievi ha descritto il ciclo di studi elementari come un lungo viaggio fatto, insieme, in treno. Che ha aperto le sue porte a tutte le materie di studio, che ha attraversato valli, pianure e città, e fermato in tante stazioni. Per discutere del bene e del male, del vero e del falso. Stavolta però il treno non si è fermato per la solita sosta nella stazione delle vacanze. Si è arrivati al capolinea. Tutti i viaggiatori, con il loro bagaglio, devono scendere, e aspettare la prossima coincidenza. Ad ogni cena di addio delle sue quinte classi, le lacrime, da una parte e dall’altra, ci scappano sempre.
La rappresentante dei genitori Elvira Feriozzi, figlia del decano della stampa ascolana Gigi Feriozzi, scrive, nel 1993, nel verbale dell’ultima riunione del quinquennio: «La maestra Maria Gina ha ringraziato colleghi e genitori per l’equilibrio, la serenità lo spirito di collaborazione che, senza critiche o disapprovazioni, le sono state sempre dimostrate. Essere ringraziati da lei è il colmo. Siamo solo e solo noi genitori, invece, che vogliamo ringraziare lei. Con calore e sincerità. Per il forte e proficuo impegno profuso con simpatia, entusiasmo ed amore. Doti rare e preziose, quando sono insite nella stessa persona, di cui hanno beneficiato i nostri bambini, nell’apprendimento e nel crescere. Tutti i presenti hanno lungamente applaudito, ed entrambe ci siamo commosse abbracciandoci».
Le reunion
In pensione dal 1999, dopo trentacinque anni effettivi di servizio. «I primi tempi sono stati duri – ricorda sempre Maria Gina Stipa – mi sembrava di rubarli, senza far nulla, quei soldi della pensione. Ma soprattutto mi mancavano i bambini. E, forse, un po’, anche io a loro. Per questo sono stata sempre felice di accettare tutti gli inviti che mi hanno esteso ad ogni occasione di ritrovo». Come alla festa collettiva di compleanno per i 50 anni dei suoi ex scolari di Centobuchi, nel gennaio del 2020.
Il gestore del ristorante che li ha ospitati per il pranzo deve letteralmente cacciarli dal locale. Perché, inseguendo i tantissimi ricordi condivisi di quasi mezzo secolo prima, si è fatta notte. La giornata è passata troppo in fretta. Lei ha portato, per rileggerli, i loro temi, che ha gelosamente conservato per tutti questi anni come gioielli di famiglia. E qualche bigliettino d’amore innocente, intercettato mentre viaggiava, di soppiatto, fra i banchi. È una vera festa, ancora raccolti tutt’intorno a lei, come un tempo. Una emozione grande per tutti. Ma, per lei, lo è molto di più.
«Grazie per averci insegnato a leggere, a scrivere, a contare – le scrivono i suoi ex alunni in una delle tante lettere aperte – ma, soprattutto, grazie per averci amato. Hai saputo sempre sopportarci, essere autorevole senza essere mai autoritaria, ma dolce come una mamma, e in ognuno di noi hai lasciato un segno. Hai saputo ben distribuirci carezze e rimproveri a seconda del bisogno. Grazie ancora, per averci donato il sapere, ma, soprattutto, per averci donato il tuo amore…». Si interrompe ancora, più volte, la maestra Maria Gina, mentre rilegge quelle righe, perché la voce le si incrina dalla commozione. Come ogni volta.
Ricordi e speranze
Custodisce ancora con cura un biglietto autografo, ingiallito come la busta che lo contiene, che le inviò il suo professore di matematica e fisica nell’agosto del 1959. Si chiamava Giuseppe Marino, e dalla sua Sicilia le aveva chiesto di essere informato sugli esiti degli esami di Maturità della sua classe. Risponde per ringraziarla delle notizie ricevute, con un bigliettino scritto in bella calligrafia di una penna stilografica, nel quale non rinuncia al rigoroso “lei” d’ordinanza. Elogi per gli esiti dell’esame, per il diploma brillantemente conseguito, ma anche «il riconoscimento per le sue apprezzate qualità, di mente e di cuore, e l’augurio che le sue aspirazioni abbiano a realizzarsi con meritato successo».
Buoni auspici, in questo caso, ampliamente concretizzati. I suoi ex alunni della “San Domenico”, giusto trent’anni fa, alla soglia della pensione, l’hanno omaggiata con una raccolta rilegata di loro temi e testimonianze, senza sconti, su di lei. Titolo: “E noi ce la siamo cavata …grazie a Maria Gina”. Un concentrato di ingenuità, impertinenza e affetto profondo.
Lei lo ha conservato gelosamente. In occasione del matrimonio del fratello compone i suoi primi versi in rima. Una cosa che le piace, e le riesce benissimo. In italiano, o anche in dialetto.
Raccoglierà i suoi versi in due pubblicazioni uscite nel 2008 e 20022, e sta lavorando ad una terza raccolta. Per quindici anni nella parrocchia di San Giovanni Battista della sua Poggio di Bretta, è stata catechista dei cresimandi. Qualche volta capita che suoi ex scolari e scolare la fermino per la strada. Lei non può riconoscerli, magari dopo mezzo secolo, ma loro riconoscono lei. Sono affetti che non muoiono mai. E questo le fa enormemente piacere.
«Oggi vivo di questi ricordi – ci confida la maestra Maria Gina – insegnare non è un lavoro come un altro. E i bambini percepiscono il bene che fai, e che dai. Ogni addìo alle quinte classi è stato un pianto di commozione generale. Mio e loro. Ho continuato a seguire i risultati dei loro percorsi scolastici, spesso fino alle lauree. La scuola è stata, alla pari della mia famiglia, la mia vita. Mi ha dato tanto, e io ho dato tanto a lei. Lasciando a casa, magari, i miei figli ammalati a letto con la febbre, per correre a scuola, dai miei bambini. Sono pronta alla chiamata del Signore, ma sarei pronta, se si potesse, anche ricominciare, subito, tutto daccapo».
In una sua recente poesia, scritta dopo un periodo molto difficile, grazie a Dio ormai alle spalle, ha paragonato la vita ad una scala da salire.
“…non di cristallo la mia scala è stata, ma a pioli, di legno, mi è stata destinata… pioli di pioppo, fragili e delicati, sotto il peso delle avversità, a volte, spezzati… ma anche di noce, compatti e duri, che hanno retto nei periodi più oscuri… oggi sono agli ultimi gradini della mia esistenza, vorrei fossero di noce, è una speranza… ognuno salga la sua scala della vita, su pioli di noce, e con gioia infinita…”.
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