La furia del terremoto ed il ricordo che non muore: «Corpi e polvere, pensavo fosse un incubo»

ARQUATA - Nell’anniversario del sisma, la memoria di Filiberto Caponi, che si trovava nella sua Pretare: il calvario della notte, la corsa verso la distrutta Pescara, la solidarietà e il legame con un dipinto “profetico”: «Le vite non si recuperano, ma la loro essenza e il loro lascito sì». La sua poesia "Ferito incanto" letta durante la commemorazione
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Filiberto Caponi

 

di Luca Capponi

 

Un dipinto giovanile, realizzato quasi per caso in una notte insonne quando aveva appena sedici anni, è diventato per Filiberto Caponi il simbolo della sua memoria del terremoto. Quel quadro, raffigurante pietre che si sollevano, fuoco che emerge dal sottosuolo e angeli che sollevano i corpi dalle macerie, sembrava anticipare la tragedia che, decenni più tardi, avrebbe devastato la sua terra.

La casa in cui si trovava Caponi durante il sisma

 

«Il genio militare incaricato della demolizione di casa mia non se l’è sentita di distruggerlo – racconta Caponi – e così mi hanno messo nelle condizioni di poterlo salvare. Ora è arrotolato su tela, in attesa di una nuova casa».

 

Poi, il ricordo della notte del 24 agosto 2016, dell’ondata sismica che portò distruzione tra Amatrice, Accumoli ed Arquata del Tronto causando 299 vittime. Un ricordo che Caponi, nato nella frazione di Pretare, porta inciso nella pelle.

 

«Ero appena tornato da una serata con gli amici – dice – mi ero addormentato quando un freddo improvviso alla schiena mi ha svegliato. Non ero più sul letto, ma sul pavimento che tremava. All’inizio credevo fosse un sogno vivido. Ho provato ad accendere la luce, ma l’interruttore andava e veniva mentre tutto ballava. Attorno a me, cassetti spalancati, finestre scardinate, calcinacci che graffiavano i piedi nudi. Per un istante ho persino pensato a un bombardamento o a un’esplosione di gas. Non riuscivo a distinguere se fosse realtà o incubo».

Il dipinto

 

Il tentativo di scappare si scontra con la porta che non si apre. «Era bloccata dal telaio girato, come capita alle case vecchie. Così mi sono diretto verso il salone, la cucina: sembrava che un’orda di vandali avesse devastato tutto. Alla fine, forzando, sono riuscito a uscire. Ero in mutande, la prima cosa che ho fatto è stata rientrare di corsa per prendere qualche vestito, con la paura di restare sotto le macerie».

 

Fuori, il paese sotto la furia del sisma. «Ho visto le pietre delle case venire giù, i cavi dell’alta tensione strapparsi dai muri. Alcuni di noi si sono subito mossi per aiutare le persone anziane: ricordo una signora ultraottantenne, appena operata al femore, che abbiamo tirato fuori di casa con il catetere ancora attaccato. A Pretare, per fortuna, non ci sono state vittime. Ma in quel momento non sapevamo cosa fosse successo altrove».

Qui nell’immediato post terremoto

 

Lo scopre poco dopo, accendendo il cellulare, raccontando il tutto con voce rotta dalla commozione.

 

«Le immagini di Amatrice e soprattutto di Pescara del Tronto mi hanno sconvolto. Non potevo crederci. Con alcuni amici decidemmo di recarci subito a Pescara: era rasa al suolo. Ho visto corpi di persone che conoscevo coperti alla meglio da lenzuoli e materassi, famiglie raccolte nei prati in attesa del riconoscimento. Scene strazianti. E lì ho capito che non potevo non andare: quando poco prima ero sotto lo stipite di casa mia, pregando che non crollasse, avevo pensato “Dio, non farmi fare questa morte”. E se fossi rimasto sotto le macerie, quanto avrei desiderato che qualcuno venisse a salvarmi?».

Il recupero di un’opera

 

La solidarietà non tarda ad arrivare. «Automobili piene di coperte, cibo, vestiti. Io stesso mi attivai per portare brande, generi di prima necessità, finché riuscimmo a ottenere un campo tenda anche a Pretare, che inizialmente non era previsto. La gente non voleva abbandonare il paese. Le tende vennero scaricate e ci opponemmo con forza quando ci dissero che non potevano montarle. Alla fine il campo si fece, e quella fu una piccola vittoria».

 

Caponi dà una mano, anche nelle fasi di recupero di opere e beni culturali di ogni genere, mettendo al servizio di tutti la sua professionalità da restauratore ed artista.

Con Enzo Decaro

 

Nei mesi successivi nasce anche la poesia. “Ferito incanto“, che trasforma il dolore collettivo della sua terra in parola. Proprio questo testo, la scorsa notte, è stato letto della nipote Danila Pontani durante la commemorazione delle vittime a Pescara. Un lavoro che ha trovato anche la voce dell’attore Enzo Decaro: «Per me è stato un onore – racconta – perché ha dato nuova forza a quello che avevo scritto, senza toccarne una riga».

 

Oggi Caponi vive ancora dalla sorella, ad Acquasanta Terme, dopo il campo tenda e l’iniziale “emigrazione” lungo la costa. La sua casa è stata demolita. «Fa male, certo, ma quando penso a chi quella notte ha perso la vita, capisco che le case si possono ricostruire, le persone no. La prima vera casa è la pelle».

 

E proprio su questo punto insiste: «Se la ricostruzione non accelera, rischiamo di avere solo scatole vuote. Bisogna ricostruire il tessuto sociale, non soltanto i muri. Le vite non si recuperano, ma la loro essenza e il loro lascito sì. Dobbiamo ricordare i morti omaggiando i vivi che ne conservano il ricordo. Quei momenti non devono svanire, perché rivivono in noi ogni giorno, in ogni singolo gesto. È questo il modo di rendere onore a chi non ce l’ha fatta, ed è questo che deve guidarci anche nella ricostruzione».

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