di Luca Capponi
Nel complesso e spesso fragile universo delle vicende familiari, può accadere che la giustizia, pur animata dalle migliori intenzioni, finisca per lasciare indietro proprio chi avrebbe più bisogno di essere protetto. È il caso di una madre del Piceno e di sua figlia disabile, protagoniste di una vicenda che solleva interrogativi profondi sul funzionamento del sistema di tutela dei soggetti più fragili.
La donna aveva deciso di chiedere l’intervento del tribunale per segnalare alcuni comportamenti dell’ex marito che, a suo giudizio, stavano mettendo in difficoltà la figlia. Si aspettava che la giustizia intervenisse per proteggerla, ma le cose non sono andate come pensava.
«Credevo di aver fatto tutto nel modo giusto, di aver seguito le regole. Invece mi sono ritrovata in un labirinto di carte e procedure che non capivo più», racconta con amarezza.
A cambiare tutto è stata una diversa interpretazione del suo ricorso. Quello che per lei era un tentativo di difendere la figlia da situazioni pregiudizievoli, è stato trattato come una semplice questione di affidamento. Da lì, il percorso si è complicato fino a bloccare ogni possibilità di andare avanti.
«Mi sono sentita impotente – aggiunge -. Per un errore di qualificazione, mi hanno tolto la possibilità di proteggere mia figlia. È come se una riga scritta in un modo invece che in un altro avesse cancellato tutto quello che stavamo cercando di far valere».
A rendere tutto ancora più doloroso, un passaggio nella sentenza che definisce la disabilità della ragazza come “lieve”, un termine che – spiega la madre – non descrive affatto la realtà quotidiana: «Chi vive accanto a una persona fragile sa cosa significa. Non ci sono disabilità lievi quando si tratta della vita e della serenità di un figlio».
Il risultato è un paradosso: una madre che ha cercato di far valere i diritti della figlia si è trovata, invece, prigioniera di un meccanismo che l’ha lasciata senza strumenti.
«Parlano tanto di tutela dei più deboli, delle donne, delle persone con disabilità – prosegue ancora -. Ma quando arriva il momento di passare dalle parole ai fatti, spesso ci si scontra con muri invisibili. Io ho solo cercato di difendere mia figlia, e mi sono trovata da sola, contro un sistema che non ha saputo ascoltarmi».
Una storia che lascia l’amaro in bocca, e che mostra quanto, a volte, tra le pieghe della burocrazia e le righe delle sentenze, si possa perdere di vista l’essenza stessa della giustizia: la capacità di capire e di proteggere le persone.
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