Elettrocarbonium, la memoria dimenticata ed il racconto degli operai: «In alcuni reparti sono morti tutti»

ASCOLI - Quello dei lavoratori ex Carbon è un esempio che mescola memoria, sicurezza, fatica, coraggio ma di cui non si parla mai. Dal contatto con materiali pericolosi alla paura di ammalarsi, dagli orologi che si fermavano a causa dei campi magnetici all'esposizione costante all'amianto fino alla chiusura del 2007: «Tante promesse, ma quasi nessuno è riuscito ricollocarsi, tra l'indifferenza di tutti. Il sito inquinava e noi dentro rischiavamo senza saperlo, ma abbiamo sempre mostrato gratitudine». Rumore, radioattività, gas, forni di cottura che arrivavano a 1.100 gradi ed una scritta posta sugli scatoloni delle fibre ceramiche refrattarie: "Da esperimenti condotti su animali risulta che possono provocare il cancro per inalazione"
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di Luca Capponi 

 

«Mi trovavo in portineria per una commissione, avrò avuto 15 anni, quando un uomo uscì per salutarmi. La sua faccia era completamente ricoperta da un misto di fumo e polvere nera ed io non lo riconobbi: era mio padre…».

L’ex Carbon negli anni ’30 (foto dall’archivio dell’associazione “Ascoli com’era”)

 

Pece, catrame, cenere, coke di petrolio, amianto. Sostanze che chi lavorava alla Sice conosceva bene, perché ci viveva a stretto contatto, per otto ore al giorno, quasi sempre respirando veleno. Tanto che in molti, lì dentro, si sono ammalati fino a morire.

 

D’altronde il dilemma era di quelli che, soprattutto negli anni del boom economico e successivi, si imponeva puntuale in tante famiglie italiane, ascolane in questo caso: il posto sicuro con un bello stipendio o la (in)consapevolezza di sottoporsi ad un lavoro di quelli che oggi chiamerebbero “usuranti”, concetto appena adeguato per descriverlo?

 

Rumore, radioattività, gas, forni di cottura che andavano dai 750 gradi ai 1.100 gradi ed una scritta che più di tutte, posta sugli scatoloni delle fibre ceramiche refrattarie, a rileggerla oggi fa impressione: “Da esperimenti condotti su animali risulta che possono provocare il cancro per inalazione”. 

 

Qui, nello stabilimento ascolano della multinazionale degli elettrodi che nel suo fulgore ha dato occupazione a circa 1.200 persone, Romolo Rossi ci ha passato una vita «dall’ingresso nel 1984 fino a poco prima della chiusura, nel 2006». Dalla Sice (Società Italiana dei Carboni Elettrici), come si chiamava in origine, fino all’Elettrocarbonium poi divenuta, nel 1992, Sgl Carbon.

Il sito oggi

 

Una data, quella del 17 febbraio 2007, che lui, come molti altri suoi colleghi, ricorda fin troppo bene. Da quel giorno i dipendenti rimasti attendono ancora la ricollocazione promessa più volte da tanti: la stessa Carbon, istituzioni, politici, società e cooperative varie.

 

Di loro, come di quelli che qui hanno lavorato duro, ma soprattutto di coloro i quali hanno perso la vita dopo essersi ammalati, sembra non ricordarsi mai nessuno. Neanche nelle svariate occasioni pubbliche che pure si stanno succedendo da quando il sito produttivo dismesso è oggetto di bonifica. Mai una parola, un minuto, più semplicemente un “grazie”. Dimenticati allora, dimenticati oggi.

 

«E nel mega progetto di riqualificazione dell’area non è previsto nemmeno una testimonianza, uno spazio di memoria, un’installazione per ricordare quello che c’era prima e che per un secolo ha dato lavoro a tante persone…perché?».

 

Domanda che Rossi si pone quasi con rassegnazione. Eppure quello degli operai della ex Carbon è molto più di un esempio che mescola memoria, sicurezza sul luogo di lavoro, fatica, coraggio. Di lealtà e correttezza. È un insegnamento ed un monito al tempo stesso, in una contemporaneità che ancora oggi si riempie di parole ma di fatti ne fa pochi per tutelare chi ogni giorno rischia la vita in fabbrica o in un cantiere, in condizioni spesso proibitive.

L’interno

 

«Mio padre lavorava qui, anche lui è morto di tumore ai polmoni. All’epoca però si derubricava tutto dando la colpa al fumo, ma tanti di quelli che si sono ammalati e sono poi scomparsi non fumavano affatto», ricorda.

 

La Carbon è stata per decenni una spina nel fianco nel tessuto urbano e sociale di Ascoli: attorno al sito (27 ettari, dopo diverse espansioni) prima c’era solo campagna, campagna che nel corso dei decenni (dal 1907 in poi..) è stata via via sostituita…dalla città. «Una convivenza che dalla fine degli anni ’70 in poi non fu per niente facile – continua  -. Da una parte l’Elettro dava lavoro e sosteneva migliaia di famiglie e dall’altra era mal vista per via dell’inquinamento che produceva: ma era pur sempre una multinazionale molto potente».

 

Tradotto in parole povere: ci mangiavano un po’ tutti. Trovare manodopera, inoltre, era fin troppo semplice, quasi quanto convincere ragazzi abituati a spezzarsi la schiena tra i campi, spesso senza un reale guadagno, ad accettare un posto ben remunerato e sicuro per l’avvenire. Pure se si doveva staccare il coke di petrolio a mano, con la raschietta, o avere a che fare con materiali impregnati di sostanze tossiche.

Uno scatolone dell’epoca

 

«Il mio primo stipendio fu di circa 1.000.000 lire mentre mia madre che lavorava alla Yoshida ne prendeva poco più della metà, in più noi avevamo anche la quindicesima mensilità – prosegue Romolo -. Non era un lavoro facile ma pur di guadagnare si era disposti a fare di tutto, le alternative non erano tantissime, anche se poi molti duravano poco e se ne andavano. Parliamo di ambienti dove la temperatura era sempre molto alta, c’era rischio per tanti motivi anche nei reparti più puliti, dai gas alla radioattività fino all’esposizione all’amianto, ma allora non ce ne rendevamo molto conto, molte cose neanche le sapevamo».

 

«Vero è che l‘azienda non ha mai lesinato nel fornirci materiale di protezione, che però all’epoca non era come quello odierno, le mascherine ad esempio venivano indossate solo in determinati passaggi poiché tenerle su per tante ore in un luogo così caldo non era possibile –prosegue -. Diciamo che la prevenzione avrebbe potuto godere di sistemi più consistenti e che loro erano molto più attenti alle esigenze della città e di ciò che veniva percepito all’esterno». 

 

Di fatti e avvenimenti che a ricordarli oggi appaiono tanto incredibili quanto assurdi ce ne sono, purtroppo, a iosa. Da quando, siamo all’inizio degli anni ’90, una pioggia “strana” dalla ciminiera si riversò sulle auto parcheggiate nei pressi dello stabilimento («All’inizio venne scambiata per altro, in realtà si scoprì che era pece ed alla fine l’azienda rimborsò per i danni causati alle carrozzerie») fino alle scarpe che si scioglievano letteralmente quando vicine ai forni ed agli orologi digitali che si fermavano a causa della potenza dei campi magnetici presenti nei reparti dedicati alla grafitazione: «Chi aveva il peacemaker non poteva entrare lì a causa dell’elevato magnetismo, ricordo che la potenza era tale che riusciva a far girare un macchinario gigantesco come la benna che avevamo in loco».

 

Un nuovo episodio si verificò al confine l’Austria, dove la dogana bloccò alcuni vagoni ferroviari diretti ad Ascoli e provenienti dall’ex Unione Sovietica, pieni di materiali di smaltimento delle centrali nucleari. Un altro, invece, riguarda i famigerati idrocarburi policiclici aromatici, meglio noti con l’acronimo di Ipa, ritenuti da sempre inquinanti e cancerogeni: ebbene quelli utilizzati ad Ascoli erano inclusi in una lunghissima lista; tra questi ve ne era uno talmente particolare a livello chimico che non esisteva in nessun altro luogo del mondo, tant’è che lo chiamarono “Picene”.

Un gruppo di operai in una vecchia foto

 

«Quando veniva cambiato il coperchio di aspirazione di un forno usciva tutto ciò che stava nelle condotte, arrivavano delle fumate gialle incredibili, stessa cosa per le polveri che si alzavano quando venivano movimentati i mezzi ricorda ancora Rossi – . Nel processo produttivo l’amianto veniva usato praticamente ovunque, era considerato materiale d’eccellenza per la coibentazione, se ne arrivava ad acquistare anche 24 tonnellate l’anno».

 

«Dopo che fu vietato tutto rimase uguale, dato che la legge del 1992, ambiguamente, ne impediva l’acquisto ma non l’utilizzo – continua -. Solo quando uscirono le prime evidenze che l’esposizione a questo minerale potesse generare problemi alla salute iniziammo a renderci conto di rischi che prima ignoravamo totalmente. Successivamente sono uscite sentenze in cui è stata riconosciuta l’esposizione all’amianto fino al 2004, altro che 1992».

 

Seppure una statistica ufficiale non esista, i casi di malattia e di successivo decesso tra gli operai dell’Elettro, nel tempo, ha prodotto un dato impossibile da ignorare. Che ha fatto convivere decine di ragazzi con l’incubo della malattia. Con la paura. Con la possibilità di ammalarsi a causa del lavoro svolto in condizioni a dir poco rischiose.

 

«Ci sono state storie davvero brutte – ammette Rossi -. Nel reparto caldaia sono scomparsi a causa del cancro tutti quelli che ci lavoravano, erano in 6/7, tutti per lo stesso motivo, non può essere una coincidenza. Lì si lavorava, tra le altre cose, col catrame. All’epoca era considerato un reparto “privilegiato” perché avevano anche la tv, dato che la stanza andava sempre presidiata e non poteva essere abbandonata. Successivamente il combustibile della caldaia fu cambiato, ma ormai era troppo tardi».

Una stanza dismessa (foto Perozzi)

 

«Troppi aspetti sono stati sottovalutati, penso alla pece fusa che veniva respirata – va avanti -. Anche negli altri reparti il numero di chi si è ammalato di cancro è alto. Se solo ci fosse stata più informazione…invece i dati sull’incidenza delle malattie non sono mai stati analizzati, neanche a posteriori. Le scritte allarmistiche dai cartelli degli scatoloni, però, scomparivano misteriosamente dopo le segnalazioni. Ciò nonostante lo abbiamo sempre detto e ribadito, anche tra di noi: “Nel piatto dove si mangia non ci si sputa”, abbiamo sempre mostrato gratitudine verso l’azienda».

 

Nel frattempo, tra consigli comunali sempre più tesi (svetta la scenetta della fetta di pane con l’olio proveniente dalla zona Carbon, offerto ad un consigliere che risposte in dialetto: “Magnetelo tu stu pa co l’olie”), indagini ambientali poco attendibili (il professore universitario che ne millantava i risultati fu sbugiardato davanti alla sala piena da un operaio che ammise di avere effettuato le analisi al posto dei colleghi), emissioni della ciminiera che venivano “ammorbidite” con grandi quantitativi di aria fresca in grado di alterare le analisi, a fine anni 2000 la storia della Carbon stava per tramontare, tra crisi, inquinamento e una città che si faceva, giustamente, sempre più respingente. Incompatibile. Aggiungendo un dramma all’altro.

“Da esperimenti condotti su animali risulta che possono provocare il cancro per inalazione”

 

«Ci furono lotte e presidi, nel 2004 rimanemmo due mesi lì davanti ma non servì a nulla – conclude Rossi -. Ricordo che un paio di politici arrivati lì per fare promesse se la sono vista brutta. Dei 150 operai rimasti ancora in servizio all’epoca della chiusura, quelli che sono riusciti ricollocarsi si contano sulle dita di una mano. Ci sono state situazioni poco piacevoli anche in quella fase, fatte di angoscia e difficoltà. Molte persone non sono mai riuscite a trovare lavoro, c’è chi è morto di pena. A un certo punto ha preso a girare anche la voce che fossero proprio gli operai la causa della chiusura della Carbon, una voce falsa che contribuì ad aumentare le difficoltà nel reperire un’occupazione». 

 

A Narni, in Umbria, c’era quello che veniva considerato lo stabilimento Carbon gemello di quello ascolano. Fu lì che apparve per la prima volta lo striscione di protesta col motto che venne utilizzato anche tra le cento torri. E che più di tutti esemplifica questa storia: “Pane e fumo va bene, solo fumo non va bene“. 

 

Oggi, a distanza di anni, oltre al pane e al fumo se ne sono andate anche tante persone. Troppe. Ed in un mondo che fagocita tutto alla velocità della luce, tenerne viva la memoria rappresenta un gesto quanto mai urgente. Necessario. Per restare ancora umani.

 


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