di Walter Luzi (video di Stefano Marozzi)

Il falò per i 100 anni del Cartofaro
Falò e spignoli. Riti ancestrali, sospesi fra fede e gastronomia, fortemente identitari. “Natalitt’” è, infatti, una tradizione tutta ascolana. Da sempre. Destinata anche lei ad essere inghiottita dal blob della modernità? Chi vivrà vedrà. Intanto resiste. Faor’ e sp’gn’litt’ conservano il loro fascino. Merito dei più anziani, che ne tramandano la Memoria. Le massaie non esistono più, ma in molte case ascolane, in questi ultimi giorni, per Natalitte, si è tornati a consultare quelle vecchie ricette della nonna. Che profumano di fritto, ma, ancora, nonostante tutto, anche di antichi e buoni sentimenti. Un’anticipazione, gastronomica ed emotiva, del Natale incombente.
Il menù tradizionale di Natalitt’ è lo stesso, semmai ancora più parco, di quello della Vigilia di Natale. Rigorosamente di magro. Con tonno, alici e olive. Pasta grossa, zite per lo più. Grossi spaghettoni forati che trattengono bene i sapori, e, altrettanto bene, fissano i ricordi. Come gli spignoli. Anzi. Diciamo meglio: li s’p’gn’litt’. Un piatto povero, fatto di piccole pastelle impastate con acqua e farina. Due le scuole di pensiero sull’aggiunta, o meno, anche di un uovo. Diatriba mai sopita, e tutt’ora ancora aperta. L’acqua, un tempo di fonte, e poi di rubinetto, è stata soppiantata, in epoca moderna di abbondanza, da quella minerale frizzante in bottiglia. Ma, anche qui, i cultori della materia si dividono: da una parte gli innovatori ad anidride carbonica, dall’altra i fedeli ai dettami, lisci, della ricetta ortodossa. In ogni caso nella pastella finiscono annegati bocconcini di gobbo, alici, broccoli, o anche di mela, prima di finire in padella, nell’olio già bollente, a friggere per un pò. Non sarà mai un vero Natalitt’ senza li s’p’gn’litt’. Fa pure la rima.

Anna Armillei
Anche il baccalà in umido non poteva mancare in tavola. «I bottegai si rifornivano di baccalà per tempo – ricorda Anna Armillei, che ha vissuto la sua infanzia nelle campagne della Vallesenzana, fra Cimagallo e Fonte di Campo – in vista del Natalitte, quando la richiesta aumentava enormemente. Ogni negoziante aveva il suo segreto sui tempi di tenuta in ammollo, o sugli accorgimenti per renderlo più appetitoso. Qualcuno, a questo scopo, aggiungeva all’acqua anche i ceci. Il baccalà è stato, da sempre, il piatto di pesce più tradizionale in tavola la sera di Natalitte. Una festa considerata importante quanto quella del Natale, che sarebbe caduta appena un paio di settimane dopo».

Luigi Scattolini
In realtà, oltre a Natalitte, anche la vigilia dell’8 dicembre, dedicata all’Immacolata, è molto sentita. Salutata anch’essa con il rito notturno dei falò, i faor’. Un’usanza ancestrale che sa di cerimonia sacra, di liturgia della purificazione. Fiamme sulla terra, nella notte, a guidare, dalle città e dalle campagne, gli angeli in volo con la Santa Casa di Nazareth verso il vicino Santuario Mariano di Loreto. Questo vuole la leggenda, vecchia di secoli, all’origine della Festa della Venuta. «I giovani d’oggi – sostiene Gigino Scattolini, dall’alto delle sue ottantadue primavere – imbambolati da social media ed happy hours, ignorano quasi completamente questa antica tradizione, che rischia di andare, come altre, tristemente perduta. La festa di Natalitte, il piccolo Natale, era per noi ragazzi festa di condivisione a tavola delle pietanze tradizionali, e di gioia vera con il suggestivo rito dei falò che seguivano. In campagna, nelle aie, era più facile trovare spazio nelle aie e legna per alimentarli, ma noi, in città, dovevamo industriarci. Individuare lo spiazzo più sicuro, il più delle volte la piazzetta vicino all’Istituto delle suore Concezioniste, e ammucchiarci durante la giornata ogni cosa che potesse essere bruciabile. Soprattutto rami caduti e rovi, che andavamo a raccogliere fino al fiume».
Epoche in cui per essere felici bastava molto poco, ben descritte anche da una poesia in vernacolo ascolano, Natalitte e la Venuta, di Emidio Cagnucci, del 1967: “…se spara li bombette, castagnole e li fechette, pè li rione fa li spare, e tra di lore fa li gare de li più gruosce faor…”.
In effetti era usanza, soprattutto fra i più giovani, far esplodere, in segno di festa, quella sera, piccoli, rudimentali petardi artigianali. «Dopo aver acceso il falò – ricorda sempre Luigi Scattolini – ci divertivamo a sparare le castagnole fatte in casa, e i bulloni imbottiti di zolfo e potassio. La Polizia lo sapeva, e interveniva per sequestrarcele, in quanto vietate. Poi, quando le fiamme si abbassavano ci sfidavamo a saltare il fuoco. Prova di coraggio e abilità. Nulla andava sprecato in quel tempo. Quando il falò si spegneva arrivavano le vecchine con le loro monache a raccattare ceneri e tizzoni ancora ardenti, per scaldare, dentro lu predde, i letti prima di coricarsi per la notte. Grazie a loro si procedeva così anche alla pulizia della piazzetta».
Nelle campagne, invece, si faceva a gara fra i vari casolari per realizzare i falò, i fuochi della Venuta, più grandi e visibili da lontano. Erano centinaia e centinaia in un territorio prevalentemente votato all’agricoltura. Tutti insieme guidavano, accompagnandola idealmente, l’angelica traslazione della Santa Casa di Loreto dalla Palestina. Intorno ai fuochi si recitavano, a volte, preghiere, rosari, oppure le Litanie Lauretane, a conferire spessore spirituale alla tradizione. A confidare, con l’aiuto della Madonna, in un futuro migliore. Di pace, di giustizia, e di prosperità. È per questo, soprattutto, che, oggi più che mai, in molti continuano ancora a pregare, davanti alle fiamme alte di un falò, la notte di Natalitt’.
foto (di Stefano Marozzi):

Natalitt’ a Porta Cartara



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