Il crimine organizzato nelle Marche:
negli anni ’90 si afferma il clan Schiavi,
dal pizzo alla Strage di Sambucheto

STORIE - L’ex questore Giorgio Iacobone racconta la malavita di quegli anni. Dopo la morte di Antonio Cataldi, in regione emergono nuove figure. Sullo spaccio di droga la fa da padrona la Camorra. Il “Mastino” Gianfranco Schiavi invece incentrava la sua attività su locali notturni e bische, poi il timore che il clan Pianese gli togliesse potere lo spinse a ordinare il massacro. Le armi usate per uccidere vennero trovate nella caserma dei carabinieri di Porto Recanati. Tra i criminali di spicco in regione si nascondeva Monya Elson, il numero due della mafia russa negli Stati Uniti: venne arrestato a Fano, lo cercava l’Fbi
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Giuseppe Bommarito

di Giuseppe Bommarito

Da decenni, quanto meno a partire dagli anni Ottanta, la criminalità organizzata di natura mafiosa, sia italiana che straniera, è ben presente e radicata nelle Marche. E in quegli anni operava in maniera così brutale ed evidente, anche con drammatici fatti di sangue, che pare impossibile che qualcuno, nelle istituzioni, oggi abbia rimosso pesantissime vicende criminali e giudiziarie che pure hanno lasciato un segno indelebile nella memoria dei cittadini marchigiani e parli riduttivamente di mere e comunque recenti infiltrazioni.

Ne parliamo con Giorgio Iacobone, un poliziotto di prim’ordine, arrivato alla fine di una brillantissima carriera al grado di questore e poi di dirigente generale della polizia, uno che, prima di andare in pensione nel 2015, la malavita, anche organizzata e spesso pure mafiosa, l’ha conosciuta e combattuta duramente per oltre quaranta anni nelle Marche, in Sicilia, in Abruzzo, in Campania, in Sicilia e persino nel Trentino.

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Giorgio Iacobone

Che successe nelle Marche, dopo la morte nel 1991 di Antonio Cataldi, il boss che si vantava di essere riuscito a tenere sotto controllo la camorra, che già allora cercava di inserirsi nel mercato marchigiano della droga?

«I primi anni Novanta sono quelli in cui si afferma progressivamente in tutta la fascia costiera delle Marche, escludendo il litorale pesarese e includendo però la zona nord dell’Abruzzo, sino a Giulianova, il clan Schiavi, guidato da Giancarlo Schiavi detto “Il Mastino”. Gli interessi criminali di questo sodalizio erano però incentrati soprattutto sulle bische dove si giocava pesantemente d’azzardo, sui locali notturni e sulle discoteche, solo marginalmente sulla droga. Il pizzo, che veniva preteso con azioni particolarmente violente – a suon di intimidazioni, minacce, ordigni esplosivi, incendi e danneggiamenti, pestaggi, ferimenti e anche omicidi – fruttava somme enormi, decine di milioni delle vecchie lire al mese, piuttosto facili da riscuotere una volta ottenuto l’assoggettamento dei tenutari delle bische e dei gestori dei locali notturni».

La droga però, soprattutto eroina e cocaina, già in quell’epoca circolava nelle Marche. Chi maggiormente organizzava il traffico?

«Certo, la droga circolava in abbondanza, e veniva fatta arrivare nelle Marche soprattutto da Giuseppe Cirillo, un boss camorrista dapprima legato a Cutolo, poi sbarcato in Calabria dove dette vita ad un locale di ‘ndrangheta ed infine arrivato all’incirca nel 1985 in soggiorno obbligato a Serra de’ Conti, un  grosso criminale che poi, dopo essere stato arrestato nel 1995, si pentì e fece arrestare circa 300 appartenenti al suo clan, sparsi in più regioni. Cirillo, per organizzare una rete di spaccio, inizialmente si appoggiò a Cataldi, e poi, dopo la sua morte, a Sauro Paoletti, un malavitoso residente a Senigallia, che, a differenza di Schiavi, con il quale i rapporti non erano buoni, vedeva nel traffico di stupefacenti una fonte enorme di guadagni illeciti».

Se ricordo bene, Cirillo morì d’infarto in aula nel 2007, in qualche corte d’assise, mentre stava deponendo e solo qualche anno fa, nel 2018, la Cassazione ha confiscato definitivamente il suo notevole patrimonio immobiliare, sottraendolo agli eredi. Ma oltre al clan Cirillo, operavano nelle Marche già nei primi anni Novanta altri clan camorristici, impegnati sul versante droga. C’era, ad esempio, anche il clan Guida, che pure venne alla ribalta…

«Sì, nel territorio marchigiano si muoveva anche Gaetano Guida, alias Gaetano ‘o pazzo, un boss di Secondigliano che faceva parte della Nuova Famiglia di Bardellino in contrasto con i cutoliani. Di lui non si occupò il mio ufficio, ma ne seguii le vicissitudini sulla stampa che diede molto risalto al suo successivo pentimento, che, tra l’altro, consentì di fare luce sullo scandalo dei medici che confezionavano perizie false per far uscire dal carcere i capoccia dei grandi clan. Guida, nelle Marche, ora si contrapponeva a Cirillo, ora interagiva con lui. Ad un certo punto venne fuori che Gaetano o’ pazzo era organicamente collegato pure a Luigi Marrino, titolare della ditta IVG, concessionaria dell’Istituto Vendite Giudiziarie della Corte d’Appello di Ancona. Fu all’epoca uno scandalo enorme: vennero accertate aste giudiziarie truccate, stime di comodo, pressioni e intimidazioni sui partecipanti alle vendite».

Insomma, se oggi è la ‘ndrangheta l’organizzazione mafiosa più presente e radicata nelle Marche, all’epoca, siamo nei primi anni Novanta, da noi spadroneggiava la camorra, almeno per quanto riguarda gli stupefacenti. Intorno al 1995 arriva infatti nelle Marche, con la pretesa di monopolizzare il traffico di droga per tutto il territorio regionale e di ereditare la rete dapprima gestita da Giuseppe Cirillo, un altro notevole boss, originario di Qualiano (Napoli), tale Nicola Pianese, cutoliano. Morì ammazzato nel 2006 in una delle tante faide camorristiche. Pianese, che aveva iniziato la sua carriera criminale come luogotenente di Pietro Nappo, temuto capoclan di Giugliano, cercò, senza riuscirci, di coinvolgere organicamente Gianfranco Schiavi nel suo progetto egemonico riguardante le Marche. Forse un ruolo in quegli anni, per il traffico di droga nelle Marche, l’aveva anche il clan Ascione, della zona di Ercolano, come poi vedremo riprendendo il discorso della strage di Sambucheto del marzo 1996. Ma adesso torniamo al clan Schiavi. Con quali organizzazioni criminali era collegato e in quali fatti di sangue rimase coinvolto?

«I contatti erano molteplici. Per la gestione delle bische nel teramano Gianfranco Schiavi fece un’alleanza con il clan La Ricciotta di Pescara. Quanto ai fatti di sangue, il Mastino, per reagire al grave ferimento di un suo uomo, colpito da un proiettile vicino al cuore, inviò qualche settimana dopo due killer, Anzioso Salvatore e Giorgetti Gianni: ci scappò il morto nel gennaio 1996, a Martinsicuro o a San Benedetto del Tronto, tale Cappetti Luigi, un biscazziere concorrente del teramano, ritenuto il mandante del ferimento di un mese prima. Alla banda Schiavi si appoggiavano spesso i foggiani – tra i quali iniziava a farsi luce Andrea Maizzi, protagonista di gravissimi fatti criminali accaduti negli anni successivi nelle Marche – per effettuare sanguinose rapine a mano armata nella nostra regione, tra le quali anche una ad un furgone portavalori sull’A14 ove perse la vita uno dei rapinatori a seguito di uno scontro a fuoco con i vigilantes. Poi ci fu la strage di Sambucheto il 6 marzo 1996, una cosa mai vista nelle Marche».

Come maturò questa strage?

«Grazie alle intercettazioni ricostruimmo abbastanza fedelmente la genesi e la dinamica della strage, che poi furono confermate da Gianfranco Schiavi, lesto a pentirsi dopo il suo arresto. In pratica avvenne che Nicola Pianese, il boss di Qualiano, nel suo intento di monopolizzare il traffico di droga nelle Marche dopo l’uscita di scena di Cirillo, dapprima strinse accordi con altri malavitosi campani, quali Antonio Sarracino e Tommaso Nappa, poi cercò di coinvolgere anche Giancarlo Schiavi, ma infine, dopo il rifiuto di quest’ultimo, di fatto iniziò ad attrarre a sé gli elementi “migliori” del clan Schiavi (cioè i più violenti, quelli pronti a tutto) e ad integrare il gruppo che faceva capo a Sauro Paoletti, operante soprattutto nel nord delle Marche. Nel clan Pianese entrò quindi anche Nazzareno Carducci, che era stato già implicato nello spaccio di droga, ma che essenzialmente era insieme a Francesco Di Paola l’autore di tutte le ritorsioni più violente che Gianfranco Schiavi disponeva contro chi si opponeva ai suoi taglieggiamenti. Carducci nel frattempo si era anche accompagnato con Giovanna Ascione, figlia di Giovanni Ascione, un capoclan della zona di Ercolano che garantiva un altro canale di approvvigionamento della droga. In sostanza, Gianfranco Schiavi si sentì allora assediato e in procinto di essere marginalizzato, con il rischio di perdere anche la ricchissima torta del pizzo alle bische e ai locali, se non addirittura eliminato fisicamente con tutto il suo gruppo. Doveva riaffermare il suo prestigio criminale con un’azione eclatante e al contempo punire Carducci, reo di averlo già abbandonato avvicinandosi a clan rivali. Da queste terrificanti considerazioni, convalidate poi dalla magistratura, scaturì il triplice omicidio ordinato da Gianfranco Schiavi ed eseguito dal figlio Marco e da Salvatore Giovinazzo, una carneficina sanzionata alla fine con tre ergastoli. Caddero sotto i colpi di mitra Carducci Nazzareno, la compagna Ascione Giovanna, all’ottavo mese di gravidanza, il padre di quest’ultima Giovanni Ascione. Si salvarono solo la figlia del Carducci, Rosa, e la moglie del Di Paola Francesco, allora detenuto».

E’ vero che le armi della strage vennero trovate dopo circa un paio di mesi nascoste nella caserma dei carabinieri di Porto Recanati?

«Verissimo, le aveva nascoste in un un sottoscala, in procinto di farle sparire per sempre, il maresciallo Giovanni Monticone, che da tempo, venendo meno ai doveri e alla dignità della sua divisa, era diventato parte organica del clan Schiavi, che aiutava e copriva in tutti i modi possibili. Anche lui alla fine riportò una pesante condanna. A quel tempo a Porto Recanati si registrava spesso la presenza di Moretti Fabiola e di Mancini Antonio, entrambi della banda della Magliana ed entrambi considerati pentiti, anche se molti dubbi in proposito si potevano avanzare sulla Moretti. Sicuramente il maresciallo Monticone li conosceva e all’epoca sorse il sospetto che i mitra della strage di Sambucheto potessero essere in procinto di essere cedute alla Moretti, che aveva sempre sostenuto di essere un’esperta di armi».

Mi sembra di ricordare che, nel corso delle indagini sulla strage, emerse un’altra verità sulla morte di Antonio Cataldi, le cui responsabilità a livello giudiziario non vennero mai chiarite.

«Sì, raccogliemmo delle indicazioni di un collaboratore di giustizia, il quale sostenne che i responsabili della morte, anzi, dell’omicidio di Cataldi furono Paoletti Sauro e tale Frascogna Rosario, detto Carosone, un camorrista cognato del boss Pietro Nappo, che venne ucciso in un bar di Giugliano alla fine del 1994, ma poi l’autorità giudiziaria non proseguì le indagini in tal senso, o perché le dichiarazioni non trovarono riscontri o perché nel frattempo erano morti tutti, non ricordo bene».

In quegli anni “salirono” nelle Marche anche diversi casalesi.

«Sì, Giuseppina Nappa, la moglie di Francesco Schiavone, detto Sandokan, allora il capo dei capi dei casalesi, partorì all’ospedale di Loreto buona parte dei suoi figli, oggi quasi tutti in carcere o comunque coinvolti in attività dei clan di Casal di Principe, in quanto la sua famiglia di origine si era trasferita a Porto Recanati in un appartamento presso l’Hotel House. Nappa Tommaso, il fratello di Giuseppina, già nei primi anni Novanta trafficava in droga nelle Marche, in contatto prima con Cataldi Antonio, poi con Paoletti e infine con Pianese Nicola. La camorra comprese presto, almeno trenta anni fa, che nelle Marche, per il suo tipo di economia, c’era molto da fare non solo per il traffico di droga, ma anche per molteplici e diversificate possibilità di riciclaggio di denaro sporco. Già a quel tempo, anche in tale ottica, erano frequenti i contatti tra i casalesi e il clan di Giugliano, vicino a Cutolo».

Per non farci mancare nulla, nel settembre 1995 la Criminalpol delle Marche arrestò a Fano Monya Elson, il numero due della mafia russa negli Stati Uniti, pluriomicida, che da circa due anni nella nostra regione riciclava somme ingentissime di denaro con la complicità di numerosi imprenditori locali. 

«Confermo, fu un’operazione brillantissima: arrestammo Monya Elson ed altri suoi sodali, ricercati anche dall’FBI dopo pazienti e scrupolose indagini. Sul loro capo pendevano accuse pesantissime: tre omicidi avvenuti a New York, traffico internazionale di stupefacenti, estorsioni, traffico di armi, contrabbando, e altre delizie simili».

E poi, a distanza di pochissimo tempo dall’arresto dei russi, nel gennaio 1996, venne sequestrata a San Benedetto del Tronto eroina per circa mezzo miliardo di lire, una somma enorme a quell’epoca, un’operazione che portò per la prima volta alla ribalta giudiziaria delle Marche la ‘ndrangheta, che probabilmente, finita la stagione dei sequestri di persone facoltose residenti nel nord Italia, aveva iniziato a praticare il grande business criminale della droga, investendoci i soldi dei rapimenti.

«Sì, in quell’operazione, che denominammo “Faccia d’angelo” per il volto da ragazzo per bene di uno degli arrestati, furono implicati numerosi calabresi ‘ndranghetisti, molti dei quali erano da tempo residenti a Roma e dalla capitale gestivano il traffico di droga nel centro Italia».

In una sua intervista risalente al 1996 lei, all’epoca primo dirigente della Criminalpol delle Marche, dichiarò che i primi segnali di presenza della criminalità organizzata nelle Marche risalivano alla fine degli anni Settanta e che da allora la presenza dei clan mafiosi nella nostra regione era purtroppo una realtà ormai radicata, da combattere duramente e con la quale magistratura e forze dell’ordine avrebbero dovuto confrontarsi ogni giorno.

«Certo, ricordo bene. Proprio in quegli anni era avvenuto un mutamento molto preoccupante, nel senso che i malavitosi provenienti dalle terre di mafia non arrivavano più nelle Marche per sfuggire a qualche faida e qui si mettevano poi a disposizione dei clan locali per continuare a delinquere, ma venivano con arroganza per imporre la forza anche militare dei loro clan, per monopolizzare il traffico di droga e per subordinare la malavita marchigiana, sempre più ridotta a semplice manovalanza».

 


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