Due marchigiani su fronti opposti
tentarono di salvare Moro:
la moglie Noretta e Moretti

...

 

Mario Baldassarri

 

di Maurizio Verdenelli

«Lascia perdere, lascia perdere…». «Ma, professore almeno un breve ricordo, eventualmente anche per smentire ciò che è apparso o confermare». «No, no, ho deposto almeno dieci volte davanti alle varie Commissioni, ho rilasciato a suo tempo altrettante interviste: non voglio più ricordare il caso Moro, non ne ho più l’animo: basta davvero”. «Tuttavia sono trascorsi da allora quarant’anni, un anniversario importante, un pezzo di storia italiana da tenere a mente». «Ciao, Maurizio». Clic. Inutile forzare l’archivio dei ricordi del professor Mario Baldassarri, senatore, già viceministro di Economia e Finanza, con Romano Prodi ed Alberto Clò nella casa di campagna di quest’ultimo a Zappolino, vicino Bologna quando in un capanno annesso, presenti alcuni bambini, avvenne un episodio. Che nato per intrattenere gli ospiti, si sarebbe rivelato centrale in quei 55 giorni alla ricerca di Aldo Moro, sequestrato dalle Br. Introvabile fino ad allora, tanto che gli investigatori si erano rivolti, data la sua fama, alla veggente di Civitanova: Pasqualina Pezzolla. Lei aveva però rifiutato d’illuminare le indagini: «So dove si trova Moro, ma il Signore mi ha dato questi poteri per aiutare la salute delle persone non per offrire soluzioni a ricerche di polizia».

Pasqualina Pezzolla

Quando quella domenica 2 aprile 1978, il maceratese Mario Baldassarri, docente all’università di Bologna (appena 32enne) si presentò dopo pranzo con moglie e figli a Zappolino, la seduta spiritica nel capanno (complice la pioggia) era già iniziata. Era stato evocato lo spirito di don Luigi Sturzo, poi quello di Giorgio La Pira che si era mostrato molto più ‘loquace’. Il ‘piattino’ cominciò a girare autonomamente (riferì lo stesso Baldassarri in commissione: “Al tal punto che sospettai che mi volessero burlare”) rivelando tre nomi di città. Nell’ordine Viterbo, Bolsena e Gradoli (”no, Grado no, perché il piattino proseguì verso la elle”). E tra i numeri, il 96. “Ignoravamo che Gradoli fosse un centro urbano”. Così quando tre giorni dopo Prodi raccontò il fatto ad Umberto Cavina, portavoce del segretario dc Benigno Zaccagnini, le volanti si portarono nella cittadina laziale, facendo un buco nell’acqua e forse ignorando la segnalazione di Eleonora Moro circa la presenza di una via Gradoli a Roma (non segnata tuttavia sullo stradario). E quando i poliziotti si trovarono alla fine a bussare inutilmente all’interno 11 del palazzo di quella via al n.96, dove armi in pugno si trovavano pronti a tutti il sangiorgese Mario Moretti e Barbara Balzerani (a mandarli in via Gradoli era stata tuttavia una diversa segnalazione) se ne andarono via. Solo il 18 aprile, il covo pieno d’armi, venne scoperto a causa di una perdita d’acqua dalla vasca traboccante. Fu proprio Baldassarri ad avvertire Prodi: “Romano, il ‘piattino’ aveva ragione…”.

Mario Baldassarri e Venanzo Ronchetti

“Per alcuni giorni, dopo il 9 maggio, la Gradoli marchigiana fu Serravalle di Chienti” racconta Venanzo Ronchetti, il ‘sindaco del terremoto del ‘97’. Che era successo? Dopo che la R4 rossa, targata N56786, era diventata l’auto più tristemente nota d’Italia, il fatto che il suo proprietario fosse ‘dirimpettaio’ del medico curante di Moro, il prof. Giuseppe Giunchi a Dignano in un territorio ‘sperduto’, aveva creato negli investigatori mille supposizioni. Sembrava pure un oscuro rebus: l’auto rossa di Filippo Bartoli, era stata rubata a Roma sul lungotevere Cesi. Lo stesso nome della frazione serravallese che 19 anni dopo il mondo avrebbe conosciuto come l’epicentro del sisma che aveva distrutto due regioni. Nel 2007, quando la R4 venne ‘scovata’ da fotoreporter nella casa della campagna romana tra Torre Angela e Tor Bella Monaca, a distruggersi più modestamente esposta alle intemperie era la R4. “Non cammina più, me l’hanno chiesta in tanti, ma ho preferita tenerla anche se mi ha procurato tanti guai” dichiarò Bartoli. Allora Ronchetti, vicesindaco, propose di “recuperare l’auto, restaurarla ed esporla nella piazza di Serravalle”. Bartoli non rispose, la famiglia alla fine optò per darla al museo delle auto della Polizia di Stato, in via Arcadia a Roma. “Qui mò non c’è più, l’abbiamo portata via, capiteci, troppi impicci ha dato” disse la moglie ai cronisti. Qualche tempo fa, l’allora assessore provinciale Daniele Salvi, ripropose il progetto di Ronchetti: ancora senza fortuna. La ‘fortuna’ mediatica della R4, che ‘non tornò a casa’ si è poi accresciuta: nel 2017 ebbe l’onore della copertina di uno dei libri di maggior successo della stagione letteraria: ‘Il segreto’, romanzo-verità di Antonio Ferrari.

Aldo Moro con Paolo VI

E c’è di nuovo Macerata e le Marche nello scenario finale della tragedia che vede ancora vicini Giovan Battista Montini ed Aldo Moro, amici sin dai tempi della Fuci e del Codice di Camaldoli nel luglio 1943, quando cadde il fascismo. Erano i giorni della ‘Carta’, del progettato impegno dei cristiani in politica ed Enrico Mattei -che Moro ministro della P.I. avrebbe dichiarato ingegnere honoris causa nel ’58 a Bologna- accompagnava in Casentino sulla sua ‘topolino’ Ezio Vanoni e Giorgio La Pira. Cattolicesimo politico che mostrerà dopo l’uccisione dello statista dc tutta la difficoltà di affrontare i cambiamenti italiani per poi implodere negli anni 90 nella lunga stagione della diaspora. Ma in quei giorni di aprile, il ‘prigioniero delle Br’ dopo il niet del suo partito, si rivolse al ‘suo’ amico diventato papa Paolo VI, che a Macerata nel 1931 durante il congresso della Fuci era stato malmenato dai giovani fascisti (leggi l’articolo) in piazza Strambi, tra il Duomo e la chiesa di S.Paolo che nel ‘33 l’avrebbe poi visto partecipare al congresso regionale eucaristico. E la risposta, bellissima, toccante che venne da Montini fu pure atrocemente deludente per Moro: il pontefice chiedeva, sì, agli uomini delle Brigate Rosse, in ginocchio di liberarlo, ma ‘senza condizioni’. Due parole che apparivano dettate dalla pratica della fermezza che aveva condannato fin lì Moro. Era davvero la fine.

 

Una fine già annunciata dal falso comunicato n.7 delle Br, il 18 aprile (opera di un falsario appartenente alla Banda della Magliana) sul ‘suicidio’ del ‘condannato’ il cui corpo si sarebbe trovato nelle acque del Lago della Duchessa. Quando salimmo fin lassù, nel Reatino al confine con l’Aquilano tra monti pieni di neve, pensavo al volto tristissimo, gli occhi presaghi di morte imminente, di Oreste Leonardi – tale appariva nella sua ultima foto scattata da Rocco Schiazza, pubblicata sul ‘Messaggero’ qualche giorno dopo il 17 marzo 1978. Su indicazione del comandante della scuola Carabinieri di Chieti Scalo, col. Polidoro (che avevo conosciuto bene a Perugia) avevo cercato d’intervistarlo. Non parlò il maresciallo Oreste guardando lontano dietro le transenne dove stava insieme con i ‘suoi’ e gli altri familiari venuti ad assistere al giuramento: Leonardi junior era nel gruppo degli allievi.

Maurizio Verdenelli e Mario Mori

Quando arrivammo in cima, il lago era una crosta di ghiaccio. Fu necessario far esplodere due cariche per consentire ai sommozzatori di immergersi: di acqua niente e pure del corpo del presidente della Dc. ‘Come mai, lei, nominato proprio il giorno di via Fani comandante dell’Anticrimine dei Carabinieri a Roma, non si trovava tra i monti reatini quella mattina?’. La domanda la feci al gen. Mario Mori, in un’intervista pubblica a Civitanova, al Caffè del Teatro (leggi l’articolo). “Non venivo certo a perdere tempo: era un chiaro depistaggio. Ormai sul caso Moro si è saputo tutto quello che si doveva sapere”. Insistei: ‘Generale, è vera in ogni caso la ‘voce’ secondo cui la Cia avesse infiltrato l’Unità di crisi? gli Usa, in particolare Kissinger, non erano stati teneri con Moro per i suoi rapporti con Berlinguer’. “La Cia non ha avuto mai la possibilità d’infiltrarsi nei nostri Servizi”.

Mario Moretti

Furono infine due persone su posizioni assolutamente opposte a tentare, mentre l’ultimatum scadeva, di salvare Moro. L’indomita Noretta, la moglie e Mario Moretti, il capo delle Br. Entrambi marchigiani della costa trovarono nel corso di una telefonata da una cabina, fatta da Moretti nonostante la certezza d’essere intercettato, un momento di comunicazione solidale nel cercare d’uscire dall’imbuto infernale. Risultò impossibile ad entrambi: la signora Eleonora era già in rotta con la Dc, da parte sua Moretti non poteva lasciare libero ‘senza condizioni’ Moro pena la fine delle stesse Br. Lo Stato rifiutava la trattativa in nome delle vittime in divisa uccise dal commando brigatista indotto poi al massacro da indicazioni ‘esterne’: sulle prime il piano prevedeva infatti la ‘neutralizzazione’ senza sangue della scorta. Una trappola infernale a quel punto della Notte della Repubblica. I burattinai restavano nell’ombra.
Il presidente della Dc andò incontro al suo destino seduto sul pianale del bagagliaio della R4i. Stroncato dalle raffiche delle BR anche se alcune ‘ricostruzioni’ vorrebbero che ad eseguire la condanna sarebbe stato Giustino De Vuono morto nel ‘94, ex legionario. Affiliato alla ‘ndrangheta, De Vuono come Nicola Alvaro che, secondo di un pentito, avrebbe ucciso il gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro. A scagionare però De Vuono era stato tuttavia il pentito ‘storico’ delle Br, il sambenedettese Patrizio Peci.

Consegna della Laurea Honoris Causa da Aldo Moro ad Enrico Mattei 1960 Italia, Bari Roma, archivio storico eni

Gero Grasso, presidente della Commissione Moro: “Il presidente della Dc fu sequestrato ‘anche’ dalle Br ma non fu ucciso dai brigatisti”. Dove fu concertata la ‘macchinazione’? Cossiga: “Un giorno si dovrà parlare pure d’inglesi”. In quella terra dove secondo Otello Lupacchini da Lapedona –al suo attivo indagini pure sulle Br – si sarebbe coagulato pure l’incrocio di interessi comuni contro Enrico Mattei (leggi l’articolo) ucciso 16 anni prima di Moro. “Io ci sarò sempre”. “Il mio sangue ricadrà sulla Dc”. A distanza di 4 decenni, quel doppio presagio dal ‘Carcere del Popolo’ si è definitivamente calato sulla storia d’Italia, chiudendo per sempre la Repubblica dei Fondatori – non contano le numerazioni e progressive- aprendo lo scenario ad un futuro tradito. Su ‘Repubblica’ intervistato da Ezio Mauro (pedinato da Patrizio Peci nel maggio ‘77) Giovanni Moro ha detto: “E’ mio padre il fantasma di questa Italia senza pace”.

 


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