di Walter Luzi
In una delle sue mascherate del Carnevale ascolano in piazza più brillanti e autoironiche, Carmelita Galiè si è cucita addosso, su misura, quella di P’mmadora. Un’altra delle sue intuizioni vincenti. P’mmadora. Quella che c’è sempre, che puoi ritrovare, con piacere, in mezzo ad ogni contesto. Come il frutto, prezioso, semplice e ricco, lei può ritornare in ogni piatto, in ogni salsa. A dare spessore e sapore. Può fare da primo, da secondo, o anche da contorno. Perché umile, generoso, e polivalente. Genuino, soprattutto. Come lei. Che non stomaca, che non stufa, mai.
Concentrato di vitalità e creatività, è attrice, e trascinatrice, nata. Insegnante per lavoro, e performer per vocazione, sulla scia del ben più famoso zio Antonio, celebrato tenore, Carmelita Galiè ha saputo lasciare la sua impronta fra gli esponenti più autorevoli dell’ascolanità di ogni epoca. Grazie, soprattutto, ad un valore che, in questo mondo, si sta, desolatamente e progressivamente, estinguendo, e che con ascolanità farebbe anche la rima. Si chiama umanità.
Enfant terrible
Carmelita abita ancora nella casa che il nonno si costruì a San Filippo e Giacomo nel 1926. Si chiamava Agostino. Cioè, per capirci meglio, Ustì d’ Stucca. Un appuntato dei carabinieri diventato barbiere, che tramanderà il mestiere al figlio Enrico. Questi, il futuro papà di Carmelita, sarà il barbiere storico delle Casermette per oltre mezzo secolo, fino alla ragguardevole età di ottantatré anni. Primo di sei fratelli, Enrico, aveva partecipato alla guerra di Libia, e scontato otto anni di prigionia in sud Africa. Mamma Livia, detta Lina, era, invece, casalinga. Carmelita nasce nel 1949, e cresce viziata come ogni figlia unica che si rispetti. Adora mascherarsi, una premonizione divinatoria questa, a Carnevale.
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In una vecchia foto è sul carro carnevalesco della sua parrocchia Caravan chips, ma a Carnevale può sfoggiare ogni giorno un costume, uno più bello dell’altro, sempre diverso. Una vera goduria questa per lei, che, fin da piccola, è sempre, oltremodo, vivace. Anzi, a dirla tutta, è proprio tremenda. In pratica è un maschio mancato. È una leader nata, e guida compagnetti e compagnette di gioco, anche più grandicelli di lei, in ogni marachella.
Fin sugli argini del fiume Tronto, tanto per rendere l’idea, che scorre, non sempre quieto, molto più in basso, al di sotto le loro case. Frequenta le scuole elementari nelle pluriclassi ricavate in locali di fortuna nelle campagne alle porte di Ascoli. La Damiani e la Antonini, futura mamma della consigliere regionale Anna Casini, le sue prime maestre. Intanto figura fra le iscritte al primo corso di danza dell’Istituto “Gaspare Spontini”, diretto dal maestro Lauri di Roma. In quel corso, stagione 1961-1962, di poco più grandicella, c’è anche Caterina Ricci, che sta per spiccare il volo verso il professionismo, prima a Roma e poi a Parigi.
Il saggio dello Spontini al Ventidio del 1959 con Caterina Ricci in procinto di partenza per la scuola dei maestri di Roma
Foto ricordo della sua prima Comunione con genitori e zii. Il primo a sinistra è il celebre tenore Antonio Galiè
La mamma la porta anche ad un concorso dei bimbi più belli. Le scuole Medie le frequenta invece alla “Luciani” quando è ancora ospitata nella vecchia sede di viale Benedetto Croce. Anche crescendo non smentisce la sua fama, perché rimane l’organizzatrice instancabile di ogni tipo di iniziativa insieme ai coetanei. La trascinatrice irresistibile verso ogni avventurosa impresa. A nove anni riesce a mettere in moto la Vespa del padre parcheggiata davanti casa, e ci si va a schiantare, ben aggrappata alle manopole del manubrio, contro il muro di una delle case qualche centinaio di metri più avanti. Inseguita dalle urla dei vicini terrorizzati che assistono, impotenti, al suo improvviso raid.
A tredici anni, invece, nella campagna di Cavignano, fa di meglio. Carica le amichette sulla Seicento verde di seconda mano acquistata a cambiali dal padre, per mostrare loro quanto è brava lei a manovrare la leva del cambio e il freno a mano. Sfrenata, e in folle, con lei, intrepida, al volante, l’utilitaria va a ribaltarsi in una scarpata poco distante. Tutti illesi, grazie a Dio, gli occupanti, ma, tirato un bel sospiro di sollievo, il padre, per la cronaca, non la prese per niente bene.
Le scuole e l’amore
Anche la scelta della scuola superiore è in linea con il personaggio. Le Industriali di via Dino Angelini. Dove le ragazze sono una sparutissima minoranza. Un’altra sfida. Esaltata dal suo fisico precocemente prosperoso, molto apprezzato dai compagni di studi, nell’educazione fisica, ma seriamente compromessa dalle sue carenze nelle altre materie, soprattutto quelle scientifiche. Dopo la sonora bocciatura rimediata in primo, cambia indirizzo. Passa alle Magistrali. Una fortuna per lei, e per il suo futuro lavorativo. Nel 1966, a diciassette anni, veste il costume della Dama di Porta Romana nella Quintana. Sarà la sua prima ed unica esperienza nel corteo storico della prestigiosa rievocazione storica della sua città.
L’anno dopo primeggia, invece, anche in un concorso di bellezza ospitato all’Hotel Gioli. È lei la Miss Studentorum 1967. Tre anni dopo conosce Renato. Un bel fusto ascolano che non sfigura di certo al fianco della Miss. È un tecnico dell’Enel che, nel 1955, è stato fra i primi 150 figuranti della prima edizione moderna della Quintana. Non solo. Renato Tassi è stato uno dei primi venticinque sbandieratori di quello storico corteo. Un manipolo di giovani sbandieratori ascolani che parteciperanno, nel 1966, anche alla tournèe negli States fra le nutrite comunità di emigrati italo-americani di Buffalo, Philadelphia, New York e Boston. Si sposeranno l’otto settembre 1973, nella chiesa di San Filippo e Giacomo davanti a don Mariano Grascelli, e avranno due figli: Omar, nato nel 1974, e Davide nel 1977.
L’insegnamento
Appena diplomata ottiene subito un primo incarico alla scuola materna di Montegranaro, Ci va con la Cinquecento bianca di seconda mano che le ha comprato il padre. A lei, patentata, ovviamente, della prima ora, non appena compiuta la maggiore età per conseguirla. Ottanta chilometri da casa senza, ancora, l’ausilio dell’autostrada A14. Una stanza in affitto non si trova, e così Carmelita se ne sta tappata chiusa a chiave tutto il tempo dopo la scuola, nella sua stanza dell’Hotel Roma dove alloggia. Per non dare troppo nell’occhio, perché l’albergo pullula di camionisti di passaggio, e una bella ragazza da sola lì dentro, non può non suscitare commenti salaci e stimolare…appetiti.
Lei resiste solo sei mesi alla forzata clausura, aspettando il sabato pomeriggio, quando può, finalmente, tornarsene a casa sua per il weekend. L’anno scolastico successivo, 69/70, passa alla materna di Monteleone di Fermo. Cinquanta chilometri ad andare e altrettanti a tornare.
Spesso sulla via del ritorno ci abbina, quasi sempre a San Benedetto, insieme ad altre giovani colleghe, i corsi di aggiornamento, per acquisire punteggi utilissimi a scalare le graduatorie. Un pomeriggio d’inverno, quando fa buio presto, la macchina va in panne sulla via del ritorno. Appiedata, non si perde, come sempre, d’animo, e si mette a fare l’autostop per raggiungere così il telefono pubblico più vicino e poter chiamare in soccorso il padre.
«A Natale i genitori dei bambini mi ricolmavano di regali – ricorda Carmelita – quasi sempre in natura. Nei piccoli paesi, infatti, all’epoca, la maestra, così come il parroco, il medico, e il farmacista erano unanimemente viste come delle vere autorità, considerate e stimate. Si lavorava a due turni con una collega, in compresenza all’ora del pasto. Poi sono stata destinata a Paggese e a San Martino nell’Acquasantano, ma non mi lamento, perché colleghe più anziane di me, i paesini di montagna più lontani avevano dovuto raggiungerli a dorso di mulo».
Quindi passa alle Materne di Porta Cappuccina e, successivamente, di Poggio di Bretta, insieme alle colleghe Silvana Stipa e Franca Ciabò.
«Credo che tutti i miei bambini – ci dice – mi ricordino con affetto. Qualcuno di loro, oggi, è diventato anche nonno, ma si ricordano bene tutti delle gite che, insieme ai loro genitori, ho sempre organizzato. Dalle passeggiate all’eremo di Colle San Marco, fino alle giornate passate nei grandi parchi divertimento di Mirabilandia e Gardaland. E persino a Parigi, in quello, grandissimo, di Eurodisney. Per non parlare delle mascherate a Carnevale. A scuola, dove facevo, in classe, per divertirli, anche l’imitazione della direttrice Sandrin, e in Piazza del Popolo. Non voglio farmi grande da sola, ma, sicuramente, con i miei bambini ho sempre lavorato con tanta passione».
Chiude la sua carriera di insegnante nella nuovissima e avveniristica scuola di Monticelli. Un gioiello di moderna architettura d’avanguardia che, però, accusa subito limiti e problematiche di vario genere. Gli indispensabili lavori di modifica all’isolamento dei locali e all’impiantistica, ne impongono il temporaneo trasferimento al vecchio Villaggio del Fanciullo di Campolungo. Nel 2006, dopo trentotto anni di servizio, Carmelita va in pensione.
Il teatro
«Recitare mi è sempre piaciuto – confessa – non per vanità mia, ma perché amo regalare sorrisi alla gente».
Ha iniziato quando ancora sedeva sui banchi delle Elementari, e non si è più fermata. Dalle recite scolastiche, sui carri mascherati della sua parrocchia, fra le gags del Carnevale ascolano in piazza, fino a cimentarsi nel teatro vero e proprio. Nel 1987 entra nella Compagnia dialettale del Capannone di Gianni Lattanzi. Il fragoroso successo che riscuote, quell’anno stesso, la commedia in vernacolo “Ve vogghie reccuntà li Cannarine”, le spiana la partecipazione a tutti i grandi lavori teatrali ascolani che seguiranno.
In quel primo spettacolo, curato da Marco Scatasta e Mariano Camaioni, interpreta due personaggi: Frocia tenta e la Snob, in un cast che comprende, oltre allo stesso regista Gianni Lattanzi, Elisabetta Alessandrini, Innocenzo Cenciarini, Giuseppe Di Teodoro, Sandro Avigliano e Anna Maria Raimondi fra i tanti altri.
«La tensione prima di andare in scena me la ricordo ancora – racconta Carmelita – il Ventidio Basso era chiuso a causa degli interminabili lavori di restauro, e il Supercinema, ancora più capiente, aveva tutti i posti a sedere esauriti. Ero quasi nel panico. Respira forte, mi suggerivano i più esperti. Ma io ero terrorizzata dal pensiero di non ricordarmi, davanti a tutta quella gente, le battute».
Invece sarà un successone, sottolineato da tutte le cronache giornalistiche locali. Scrive Carlo Paci sul Messaggero: “…uno spettacolo vissuto fra risate squillanti e lacrime… per battute e detti divenuti patrimonio vernacolista ormai in disuso, ma anche per affanni vissuti, sacrifici sopportati, romanticherie consumate, fra pietre e rue del Li Cannarine…”.
Passerà poi a recitare con Guido Mosca, e, quindi con la Compagnia Gente Nostra insieme al figlio Omar. Verrà chiamata a declamare i versi dialettali finalisti dei Premi “Cagnucci”, ed è presenza costante in rievocazioni dell’ascolanità in tutte le sue declinazioni. Fare un elenco sarebbe troppo lungo, ma, in ogni ambito Carmelita non delude mai le attese, perché è sempre autentica, genuina: «Io non recito parti – confessa – in ogni occasione interpreto, come mi dicono spesso tutti, solo me stessa. Spesso improvviso, stento a rispettare la scaletta. Sono furiosa per natura…».
Una furia espressiva che la porterà in scena con i più grandi interpreti ed autori dialettali ascolani, dopo il successo di “Ve vogghie reccuntà li Cannarine”.
Come ricorda, parzialmente, la nostra fotogallery, al fianco di Franca Gabrielli e Marina Gentili in “Fatte de povera gende” (1987) di Guido Mosca. Con Pino di Teodoro, Peppe Volponi, e Zè Vagni in “È rrescite lu sole” (1992) sempre di Guido Mosca. In “Me recorde rrete li mierghe” musicata da Giovanni Allevi, torna ad impersonare la signorina snob con Zè Valentini e Innocenzo Cenciarini, mentre in “La cimmia su la schiena” veste i panni della lucciola.
Il Carnevale, il mare, i viaggi
Protagonista della tradizionale raviolata del sabato di Carnevale in Piazza del Popolo con Li Precise, Carmelita oltre a cantare la Pasquella e il Sant’Antonio con il gruppo di Marino del Trono di Piero Celani, è fra le organizzatrici della tradizionale serata benefica del giovedì di Carnevale a favore del benemerito Iom di Ludovica Teodori. Sempre con Li Precise, quelli che andavano fino a Cinecittà a noleggiare i costumi per le loro mascherate, ha animato a lungo lo storico Carnevale ascolano insieme ai vari Mariano Camaioni, Eraldo Mancia e Raniero Paci. Senza essere mai stata in concorso.
«Non amo la competizione – spiega – le classifiche. Soprattutto nel Carnevale ascolano. È importante solo far sorridere, scegliendo il tema e l’interpretazione che meglio si prestano. Coinvolgere gli spettatori, divertirli».
Una sorta di missione che spesso l’ha vista impegnata con altri due miti del teatro ascolano: Zè Vagni e Peppe Volponi. Una filosofia che non le ha impedito, comunque, di essere gratificata con un riconoscimento prestigioso. La proclamazione di Mascherina d’oro. La massima onorificenza carnevalesca cittadina.
«Sono stata, nel 2020, la prima donna a vincere questo premio – rivela orgogliosa – diciamo ad honorem, anche se questo termine non mi piace. In compenso l’ho tenuto per tre anni, a causa della pandemia covid che ha bloccato tutte le manifestazioni pubbliche».
Poi sarà Zè Migliori ad assegnarle anche l’altro Oscar del Carnevale ascolano in piazza, e cioè il premio “L’asene che vola”, nel 2025, “alla carriera” insieme a Pino Di Teodoro. Con Peppe Volponi organizza per vent’anni filati, dal 1989 al 2019, il ritrovo annuale di “Quelli del ‘49”. Un’altra festa.
Come quelle, memorabili, per celebrare tutti i suoi compleanni a cifra tonda. Inoltre partecipa attivamente anche ai periodici ritrovi dell’associazione “Amici degli anni Sessanta” cofondata da Guido Mosca, Enrico Luzi e i fratelli Simonetti. Dante Fazzini l’ha immortalata in un dipinto dentro il Caffè Meletti che lei custodisce gelosamente nel salotto buono di casa. L’amico offidano Giancarlo Laudadio, universalmente più noto come ‘u falch’, la coinvolge puntualmente anche per i V’lurd’.
Così come è immancabile a manifestazioni musicali come L’Aquila jazz e a rievocazioni della storia e della tradizione ascolana. Ma, come detto, l’elenco completo sarebbe troppo lungo. La montagna l’ha scoperta invece solo da pensionata, grazie alla passione dello zio Narciso e del suo amico Gabriele Vecchioni, con le escursioni organizzate dall’Uplea, l’Università Popolare Itinerante del Tempo Libero e della Libera Età. I viaggi sono un’altra grande passione della sua vita. Ha visitato praticamente tutti i continenti, tirandosi dietro comitive di amici e parenti.
Dall’Argentina all’Islanda, dal Giappone a Cuba, l’Europa in lungo e in largo, l’Africa nera, da ultimo, toccando l’inverno scorso la Namibia. Il Vietnam, o l’Isola di Pasqua, le prossime mete che sogna. Tutte le sue estati Carmelita le ha passate al mare. Stessa spiaggia, stesso mare. Quello fra San Benedetto e Porto d’Ascoli. Da cinquantacinque anni anche il suo chalet è sempre lo stesso. Il Lido Sabbiadoro. Stessa compagnia di amici per la pelle. Da bambina stava quindici giorni dalle suore Giuseppine prima di affittare, grazie ai nonni, una casa per poter rimanerci, al mare, per l’intera estate.
Poi, nel 1970, la sua famiglia decide di comprarselo un appartamento a San Benedetto. E da allora, come detto, nulla è cambiato. Anche al mare è sempre la solita trascinatrice, organizzando, ad esempio, oltre ad affollati ed allegri ritrovi intorno alle tavole imbandite, allo chalet Tartana, anche i Carnevali estivi.
Oggi trova, molto volentieri, anche il tempo per fare la nonna del piccolo Edoardo. Ha cinque anni, e un talento precoce anche lui. È dolce, infatti, e sa farsi voler bene. Ma è anche ciarliero e sfrontato. Molto vivace, non sta mai zitto. Dicono che abbia preso tutto da nonna Carmelita.
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