di Walter Luzi
Si può essere cristiani ferventi e comunisti militanti. Come lo è stato Giacomo Lucidi. Un uomo di altri tempi, dalle grandi fedi. Politica e religiosa. Che possono suonare in antitesi solo nei vuoti bla bla di certi salotti televisivi d’avanspettacolo dei nostri tempi. Infestati di servi stolti che buttano sempre in cagnara, ad arte, anche ogni più drammatico tema. Che la guerra, come è successo a Giacomo, non l’hanno mai vissuta sulla propria pelle. Che l’impegno politico, come la professione giornalistica, non l’hanno mai interpretata, alla sua maniera, come servizio, come missione, come arte nobile tesa solo al miglioramento della vita della collettività, ma come basso mestiere esercitato spesso senza moralità, né disciplina, nè, tanto meno, onore.
Tre fratelli in guerra
Giacomo Lucidi nasce a Castorano nel 1921. Il papà Nicola è macellaio, la mamma Clementina Canala, sposata in seconde nozze. Giacomo è il terzogenito, dopo Luigi e Giuseppe, prima dell’arrivo di Ida. Può studiare solo fino alla quinta elementare, anche se è intelligentissimo ed ha buon profitto, perché il padre muore giovane di malattia e lui deve prendere il suo posto nei campi.
Continua a lavorare, con i suoi fratelli, le terre a mezzadria, ma quello che riescono a ricavare con le loro fatiche basta a stento per sfamare tutti. Poi scoppia la maledetta guerra. Partono tutti e tre i fratelli Lucidi. Giacomo nel 93° reggimento di Fanteria come radiotelegrafista, Luigi, che rimarrà a lungo anche segregato nei campi di prigionia tedeschi, in Artiglieria, e Giuseppe, che combatterà in Grecia nei Bersaglieri.
Riusciranno comunque, miracolosamente, a sopravvivere tutti e tre sui vari fronti. Le due figlie di Giacomo, Emiliana e Flavia, hanno recentemente ritrovato, sepolto dalla polvere in soffitta, un vecchio diario autografo del padre. Ci hanno messo parecchio per decidersi a sfogliarlo. Sentono l’emozione troppo grande. La commozione inevitabile, quando iniziano a leggerlo. Giacomo vi ha annotato, in bella calligrafia, tutti i suoi spostamenti e le sue vicissitudini, spesso drammatiche, di quei tre anni.
È il racconto della sua guerra. Che pur senza vivere battaglie campali, trincee, e assalti all’arma bianca, ne ha ben conosciuto il sangue e la paura. E l’orrore, che macchia tutte le guerre. Che solo un bellicismo, stupido e putrido, tornato prepotentemente di moda negli ultimi anni anche nel nostro Paese, può nuovamente, e più che mai dissennatamente, concepire.
Il diario
Il 12 gennaio 1941 Giacomo parte per Ancona. Destinazione la storica caserma “Villarey”, che solo due anni dopo, durante l’occupazione nazista della città, vedrà le eroiche gesta di Alda Renzi Lausdei. La sarta vedova che salverà molti militari italiani sbandati dopo l’otto settembre, dalla deportazione nei lager tedeschi.
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Nell’anconetano, fra Castelferretti, Sassoferrato e Chiaravalle, Giacomo trascorre tutto il periodo di addestramento, prima del trasferimento, da Bari, il 27 novembre 1942, sulla nave Corfù, verso il Montenegro. Approda al porto di Cattaro e partecipa ad operazioni militari sotto il comando del generale Negro attraverso Chergnizze verso Grahovo, per arginare le avanzate dei “ribelli” del maresciallo Tito, pur senza mai conoscere un vero e proprio battesimo del fuoco. Il suo reparto si acquartiera brevemente, nel luglio del 1943, anche a Cettigne.
Nel suo diario Giacomo parla spesso del pensiero ricorrente alla mamma lontana, del forte rammarico per non poterle essere vicino, di aiuto, ma anche del suo quotidiano, dei suoi problemi di salute che lo portano anche in ospedale, e dei richiami dei superiori. Scrive anche dell’amicizia fraterna nata con Romeo Valentini, un suo commilitone. Ringrazia spesso il Signore per averlo protetto e tenuto lontano dai pericoli, ma anche per ogni casuale ma felice incontro che gli ha riservato oltre Adriatico, come quello, ad esempio, con i “paesani” Filippo Mestichelli e Gino Ciabattoni. Prega spesso il suo Dio. Lo fa da sempre, e non smetterà mai. L’armistizio dell’8 settembre 1943 sorprende Giacomo a Ragusa, l’odierna Dubrovnik.
Dal porto di Cattaro, sul piroscafo Spalato, era partito il giorno prima per una licenza di un mese dopo un anno lontano da casa. Dalla radio apprendono della notizia della firma dell’armistizio da Pietro Badoglio, sottoscritto in forma italianamente ambigua, ma che tutti i nostri militari salutano con esultanza. Per loro significa solo la pace. La fine della guerra. Il definitivo ritorno a casa, agli affetti. Tutti saltano, si abbracciano, i berretti volano in aria in segno di giubilo. Molti piangono dalla grande gioia, ma per Giacomo Lucidi, paradossalmente, le esperienze più traumatizzanti di quella maledetta guerra stanno per arrivare solo adesso.
Sotto il fuoco degli Stukas
Il suo piroscafo deve infatti risalire la costa adriatica verso Spalato e Sebenico fino a Fiume prima di tornare in Italia. Ma già nel porto di Spalato apprendono di Sebenico in mano ai tedeschi, che ora non sono più i nostri alleati, e, considerandoci dei traditori, ci sparano addosso, come le milizie titine, anche loro. I primi ricognitori della Luftwaffe già sorvolano a bassa quota Spalato spargendo il panico fra i militari italiani che cercano qualunque riparo temendo, a ragione, ulteriori azioni ostili. Anche Giacomo Lucidi riporta nel suo diario di molti reparti italiani, classificati come IMI, cioè, internati militari italiani, che, dopo l’8 settembre 1943, anziché deporre le armi si uniscono ai partigiani jugoslavi di Tito per combattere i nazisti.
Giacomo invece è fra le diverse migliaia di soldati italiani, disarmati, che vengono ammassati in località Cappuccini. Dormono per terra in fatiscenti baracche di legno, e vengono sfamati con un etto di pane una volta al giorno. Si riducono a mangiare anche erbe selvatiche spontanee o ad acquistare a caro prezzo, con le poche lire ancora in tasca, frutta e castagne da qualche ortolano in paese. Il 19 settembre una squadriglia di Stukas tedeschi bombarda e mitraglia il campo. Gli italiani cercano riparo nella vegetazione circostante per tentare di scampare alla pioggia di fuoco. Giacomo si butta nella buca del pozzo nero a servizio delle latrine del campo. L’istinto di sopravvivenza vince su tutto.
I morti rimasti sul terreno insieme alle carcasse di muli e cavalli, saranno quasi un migliaio quel giorno. Inebetiti dal terrore, Giacomo e i suoi commilitoni sopravvissuti restano al coperto, timorosi di altri raid, fino a sera. Rinunciano a rientrare in quello che resta del campo. Si ricavano giacigli di fortuna fra la vegetazione dei boschi circostanti, o, come Giacomo, in ricoveri scavati nella terra sotto le rocce dove rannicchiarsi, meglio protetti, per la notte. Le incursioni dell’aviazione tedesca su Spalato, completamente priva di difesa contraerea, e dintorni, si ripetono nei giorni successivi. La paura, in questi casi può arrivare anche a cancellare la fame, e spegnere la sete.
Il 23 settembre, finalmente, viene comunicato dagli ufficiali e fatta girare voce fra la truppa, che quella sera, con il buio, ci sarà l’evacuazione da Spalato di circa diecimila militari italiani di ogni Arma, con un convoglio scortato da cacciatorpedinieri della nostra Marina. La notizia dell’imbarco imminente fa ritrovare a Giacomo, e a tutti, il sorriso, la fiducia e la speranza di riuscire, con l’aiuto di Dio, a portare a casa la pelle. Ma non è ancora finita.
Terrore in mare
Alle prime luci dell’alba, quando la costa dalmata ancora si intravvede all’orizzonte, il volo di un ricognitore tedesco sopra le loro teste annuncia nuovi guai. Poco dopo, infatti, scrive sempre Giacomo Lucidi nel suo diario, sei Stukas tedeschi bombardano in picchiata, a più riprese, le navi italiane in navigazione. Anche il Calabrone, la corvetta cacciasommergibili sulla quale è imbarcato, viene colpita più volte. Istintivamente Giacomo cerca riparo buttandosi sottocoperta attraverso un boccaporto aperto. Molti altri, dopo di lui, faranno lo stesso quasi schiacciandolo con il loro peso.
Quando torna il silenzio dopo l’attacco, fra il fumo degli incendi e le grida di aiuto dei tantissimi feriti, Giacomo deve riemergere fra i corpi straziati dei compagni che lo hanno, inconsapevolmente ma provvidenzialmente, protetto. Molti di loro sono morti facendogli da scudo. Ritorna in coperta liberandosi, uno dopo l’altro, del peso dei loro cadaveri. Completamente ricoperto dal loro sangue. Raggiunta, a fatica, la coperta, Giacomo, pur sano e salvo, piange a dirotto. Piange per i suoi compagni morti ammazzati che lo hanno salvato. Piange insieme al suo amico Romeo Valentini, mentre si ritrovano e riabbracciano a lungo, entrambi sopravvissuti ma sgomenti, sul ponte della nave, fra le fiamme e i fumi neri che si levano dal Calabrone. Ringrazia il buon Dio, la Madonna di Loreto e tutti i Santi, per aver avuto salva, ancora una volta, la propria vita.
Frastornato dai boati delle esplosioni che lo hanno quasi reso sordo, terrorizzato dal “macello” che lo circonda, ben consapevole dal terribile pericolo a cui è nuovamente scampato, corre con il pensiero, come sempre, alla povera mamma. Sola, lontana, preoccupata, e ignara di tutto. La nave, intanto, pur gravemente danneggiata, prosegue, sia pure a velocità molto ridotta, nella sua navigazione. Il rischio, concreto, del suo affondamento pare, per il momento, fortunatamente scongiurato. Approda di lì a poco nella baia dell’isola di Busi, cinque chilometri a sud-ovest dell’isola di Lissa. I pochi abitanti, con le loro piccole imbarcazioni, trasferiscono gli italiani feriti sulla terraferma. Chi può, come Giacomo, ci arriva a nuoto, in mutande, dopo aver raccolto i suoi pochi e laceri indumenti in un sacchetto, che stringe fra i denti.
I nostri soldati vengono accolti, possono rifocillarsi, soprattutto grazie ai ricchi vigneti presenti sull’isola. Si prestano le prime cure possibili ai tanti feriti. Non pare loro vero. Mangiare, riposare sotto un tetto sicuro. Finalmente, dopo tanto orrore patito. All’indomani i militari italiani sopravvissuti agli attacchi in mare della Luftwaffe, ancora sotto shock, vengono reimbarcati, quasi a forza, dai loro ufficiali su piccoli battelli reperiti in emergenza, ma senza alcuna scorta armata. In molti, infatti, vorrebbero rifiutarsi.
Pazzesco, secondo loro, affrontare ancora il mare, di giorno, indifesi, con il rischio concreto di essere nuovamente intercettati e bombardati. Un ricognitore tedesco ha già fatto la sua ricomparsa nel cielo di Busi, e ricacciato nel panico Giacomo e i suoi compagni.
Sono le fucilate di avvertimento dei partigiani slavi, frattanto sbarcati anche loro sull’isola, a convincere gli italiani ad andarsene in fretta da lì. Subito anzi. Volenti o nolenti. Chi non parte verrà fucilato. Non senza apprensioni inizia così il nuovo viaggio per mare. Stavolta però la traversata dell’Adriatico non riserva altre brutte sorprese. Sono in molti a pregare come lui in quella ultima notte di navigazione verso le coste pugliesi.
Giacomo Lucidi sbarca nel porto di Bari nelle prime ore del 28 settembre 1943. In mattinata si ricongiunge con gli altri reduci della sua Divisione “Emilia”. Alle Casermette di Bari ritrova con gioia reciproca, fra gli altri, anche il conterraneo Angelo Lelli di Colli del Tronto. Transita con il suo reparto da Fasano, Cisternino e Martina Franca, quindi Squinzano, nel leccese, assistendo in diretta alla risalita degli Alleati verso nord che decreta la Liberazione. Quando Giacomo torna a casa sua, nell’autunno del 1944, sulle prime neanche la mamma lo riconosce, tanto è dimagrito. Ha solo ventitré anni, ma ha già visto l’inferno. E, più volte, la morte in faccia.
Due cuori, una bandiera rossa
Una volta conosciuto, sulla propria pelle, l’orrore della guerra in cui il regime fascista aveva fatto sprofondare l’Italia, Giacomo abbraccia subito, con entusiasmo, l’ideologia comunista. Sa scrivere bene, come visto. Ama leggere. Di tutto. Studiare, informarsi. Nonostante la giovane età è un punto di riferimento per tutti gli altri agricoltori della zona. Anche se sono quasi tutti più anziani di lui. Un attivismo che contribuisce al largo successo elettorale della coalizione social-comunista a Castorano nelle prime elezioni post belliche del 17 marzo 1946. E, poco dopo, dare vita alla locale Lega Contadina.
Le periodiche riunioni, per parlare dei tanti problemi che affliggono la categoria, le tengono, inizialmente, nelle stalle, dove, soprattutto in inverno, fa un po’ più caldo. A Castorano Lucidi e i suoi tanti compagni tirano su anche la locale Casa del Popolo, dove non si gioca solo a carte, ma ci si confronta anche sui grandi temi della politica nazionale ed internazionale.
Intanto ha conosciuto, innamorandosene, una giovane compaesana nativa di Offida. È Adele Pannerini, ma tutti la chiamano Gina, di sei anni più giovane, e apprendista sarta. L’arte del cucito contribuisce a farle definitivamente conquistare il cuore di Giacomo. È lei, infatti, a confezionargli in casa tante bandiere rosse per le varie manifestazioni. A disegnare e ritagliare sulla stoffa gialla, falci, martelli e stelle a cinque punte da trapuntare poi sui grandi drappi rossi.
Non solo. Lavora stagionalmente, con altre giovani della vallata del Tronto, anche a Ortona, dove raccoglie l’uva nelle vigne che poi confeziona in cassette da spedire. Con le compagne di lavoro, a bordo dei camion che le trasportano verso i vigneti per la raccolta, cantano insieme, a squarciagola, Bandiera rossa. Una fede politica condivisa, dunque, con Giacomo, che ne cementa ulteriormente l’affetto reciproco.
Per convolare a giuste nozze devono, però, aspettare dieci lunghi anni. Lui, infatti, deve attendere il suo turno, dando l’obbligata precedenza del matrimonio, come si usava a quei tempi, ai suoi fratelli più grandi. Ma la manifesta fede politica di Giacomo e Adele, anche in questo caso, li condannerà, precludendo loro la celebrazione del rito religioso. Il loro parroco, infatti, Don Maurizio, nonostante siano entrambi ferventi credenti e praticanti, si rifiuta di unirli in matrimonio religioso nella chiesa del paese. La militanza attiva di Giacomo nell’Azione Cattolica, così come le preghiere del giorno abitualmente recitate, al prete non bastano. Giacomo e Adele “Gina”, che devono rassegnarsi al solo rito civile, si sposano in Comune il 21 gennaio 1956.
Lui ha trentacinque anni, lei ventinove. Parecchi per i tempi. Niente abito bianco da sposa per lei, niente confetti, niente lacrime di commozione sull’altare per nessuno. Il parroco non è neppure sfiorato, nella sua oscurantista intransigenza, dalla Comunione dei primi cristiani. Che condividendo tutto ciò che possedevano, mettendo i propri beni a disposizione, secondo gli insegnamenti di Gesù di Nazareth, di chi ne aveva bisogno, erano stati proprio loro, in fondo, i primi veri comunisti.
Ma da don Maurizio c’era da aspettarselo, perché, ancora lui, si era già sempre rifiutato persino di andare a benedire, prima della Pasqua, le loro case. “Quando diventerete veri cristiani ci verrò…”, li aveva ammoniti ogni volta. Dichiararsi comunisti, soprattutto nei paesini di campagna del centro-sud, nell’immediato dopoguerra, poteva rappresentare un handicap non da poco.
Comunisti al bando
La frequentazione delle chiese, l’amicizia dei preti, rappresentavano, infatti, a quei tempi, una specie di assicurazione sulla vita. Votare per il Partito Comunista Italiano, o anche manifestarne pubblicamente le simpatie, invece, poteva seriamente pregiudicare il futuro di ogni persona. Sì, perché a causa della scarsissima alfabetizzazione, quasi sempre l’unico a saper leggere e scrivere, spesso nel raggio di decine di chilometri, era solo il prete. Una ignoranza diffusa, da sempre prima arma in mano a tutti i poteri conservatori per sottomettere i popoli.
E così erano loro, i parroci, a leggere le lettere che scrivevano ai parenti, a casa, gli emigrati, spesso nelle lontane Americhe. E a rispondere alle missive, violando così, sia pur su richiesta, ogni loro privacy. Oppure a compilare le domande, solo a nome dei fedeli più assidui e bigotti però, di assunzione nei vari Enti della Pubblica Amministrazione. Alle quali faceva, magari, qualche volta seguito anche una intercessione diretta delle diocesi. Quando un posto fisso statale significava benessere economico garantito, e permetteva di sperare in un futuro più prospero ad ogni giovane contadino che voleva emanciparsi.
Non solo. Quando i Carabinieri delle locali stazioni dovevano fornire informative per qualche richiesta di arruolamento nei vari corpi di Polizia, o dell’Esercito, fatta da residenti nelle contrade più remote, i militi si rivolgevano proprio ai parroci per avere informazioni. E, a quel punto, le speranze di un giudizio positivo, di una raccomandazione, per un simpatizzante comunista, si azzeravano automaticamente. A prescindere dalle sue effettive capacità, dal suo coraggio, dal suo valore. Spesso, purtroppo, anche in sfregio alla sua onestà, e alla levatura morale della sua famiglia di appartenenza. Una volta bollati come comunisti, tanto bastava per essere penalizzati, discriminati.
Una etichetta che voleva essere infamante ed emarginatrice per quanti, nel nostro Paese, appena uscito a pezzi dalla guerra fascista, reclamava invece, ad alta voce, solo l’applicazione pratica dei più nobili dettati della nostra Costituzione, di fresca stesura. Cittadini che chiedevano semplicemente l’uguaglianza, non solo nelle aule dei tribunali, pari dignità, e diritti sacrosanti riconosciuti. A cominciare dal lavoro, su cui la nostra Repubblica era stata appena fondata. Condizione prima e irrinunciabile per il progresso, e l’emancipazione, di tutti. Soprattutto dei più deboli. E solo il Pci, almeno fino agli anni di Enrico Berlinguer, si impegnerà nella loro difesa, distinguendosi nettamente in questo da tutti gli altri partiti.
L’impegno politico
A soli venticinque anni, dopo il grande successo del fronte social-comunista nelle prime elezioni tenutesi a Castorano del dopoguerra, nel 1946, Giacomo Lucidi viene eletto per la prima volta consigliere comunale nelle fila del Partito Comunista Italiano.
Il clima politico e sociale in quegli anni è il più infuocato di sempre, e toccherà il suo apice con l’attentato a Palmiro Togliatti, il segretario nazionale del Pci, del 14 luglio 1948. Le misure di stampo autoritario e illiberale, volute dal ministro dell’Interno, o della Pubblica Sicurezza come si chiamava allora, dei quattro governi De Gasperi dal 1947 al 1953, il democristiano Mario Scelba, nonché come primo ministro del suo governo, dal 1954 al 1955, a danno di opposizioni e lavoratori, susciteranno vibrate proteste nel Paese.
La Polizia veniva impiegata, infatti, in maniera massiccia e violenta per reprimere le manifestazioni pubbliche di protesta dei lavoratori. Non solo. Molti funzionari ed alti ufficiali della polizia politica fascista, l’Ovra, e di quella coloniale dell’Africa italiana, che avevano aderito in larga parte anche alla Repubblica di Salò, erano stati, infatti, confermati in ruoli di comando. In più era stato emarginato tutto il personale proveniente dalle fila della Resistenza, con dimissioni volontarie appositamente incentivate, e, peggio, con condotte persecutorie messe in atto dai vertici. Una serie di provocatori ed esasperanti trasferimenti e di provvedimenti disciplinari ingiustificati, avevano costretto al forzato allontanamento dalle forze di Polizia di migliaia di ex partigiani di area socialista e comunista.
I venti della Guerra Fredda, che soffiavano un po’ in tutto il mondo in funzione anti-comunista, finivano per giustificare così la repressione violenta, nelle piazze, di ogni pur legittimo e pacifico fermento sociale, sindacale e politico. La propaganda clericale e filo-democristiana è incessante, nelle chiese e sui giornali di estrazione cattolica, anche a livello locale. Dalle nostre parti si distinguono, per l’impegno in chiave anti-comunista Il nuovo Piceno e l’Arengo.
Nel 1950 il solerte Questore di Ascoli rifiuta di rinnovare la licenza di caccia, per altro già regolarmente rilasciata per il triennio 1947-1949, a lui e ad altri due suoi compagni compaesani per “mancanza dei requisiti subbiettivi”. Qualunque cosa possa significare.
La notizia rimbalza da Castorano, dove Giacomo è segretario della locale sezione del Pci, sulle colonne dell’Unità. In un articolo a commento dell’evidente abuso, si ironizza, infatti, sulla sussistenza, invece, di tutti i “requisiti subbiettivi” dei quattrini dei tre comunisti. La gabella di 3.200 lire a testa, versata dalle “tre minacce per il mondo libero” ora precauzionalmente disarmati, all’atto della richiesta, infatti, tarderà molto ad essere rimborsata.
Sempre nell’estate del 1950 sempre Giacomo Lucidi viene citato in giudizio, insieme al compagno Silvio Partemi, come recita il verbale ufficiale “per aver raccolto firme per la pace, e contro l’uso della bomba atomica”. Insomma, questi maledetti comunisti, anche senza la doppietta da caccia appena sequestrata, sono sempre un pericolo da temere. Pure quando parlano di pace e di disarmo. Sovversivi, come i “pacifinti putiniani” di oggi. La Storia si ripete sempre. Difeso dall’avvocato Lattanzi di Ascoli a dicembre Giacomo viene assolto, perché il fatto non costituisce reato, e gli viene anche revocata la pesante ammenda di duemila lire che gli era stata comminata.

Una prima pagina dell’Unità che titola con le proteste per la visita in Italia del presidente americano
Il fermo intimidatorio
Giacomo Lucidi verrà sempre rieletto, nelle cinque legislature consecutive successive, rivestendo, nell’amministrazione comunale di Castorano 1951/1956, anche il ruolo di vicesindaco. In questa veste ritorna alla ribalta delle cronache. Il 19 gennaio, a ventinove anni, capeggia qualche centinaio di manifestanti radunatisi a Castorano per contestare l’arrivo in Italia del presidente americano D.D. Eisenhower.
Due giorni prima ad Adrano, nel catanese, le forze dell’ordine avevano aperto il fuoco sui militanti di sinistra che protestavano anche loro contro la visita di Eisenhower. Un giovane bracciante diciannovenne, Girolamo Rosano, era rimasto ucciso. Altri undici dimostranti feriti, fra i quali, molto gravemente, un sedicenne, mentre una donna era morta di infarto dallo spavento per la sparatoria.
Nella mattinata dello stesso giorno anche ad Offida, quasi un migliaio di contadini erano stati dispersi, con le cattive, da Polizia e Carabinieri durante un’altra manifestazione inscenata per lo stesso motivo. A Castorano vola anche qualche sassata contro i Carabinieri di Offida e quelli di Ascoli arrivati di rinforzo che origina qualche tafferuglio. Fa sorridere, al confronto dell’asservimento demagogico di certa grande stampa al potere politico di oggi, il candore della cronaca locale filo-governativa di allora. Che a fianco delle informazioni per i fedeli sui lunghi itinerari della Madonna Pellegrina nelle parrocchie della provincia, tuona contro “la grave minaccia comunista… il piano rivoluzionario bolscevico… le mire dell’imperialismo rosso con le sue sanguinarie brame…”. E bolla i contadini che manifestano il loro stato di estrema miseria nelle piazze come “perturbatori della Pace e dell’Ordine con le loro pagliacciate”.
L’impegno politico di Giacomo Lucidi nella amministrazione di Castorano si protrarrà per altre due legislature: dal 1956 al 1960 e dal 1960 al 1964. Ma il clima generale a livello nazionale continua ad essere pesante per i sostenitori della falce e martello.
Il 24 agosto 1958, dopo il comizio tenuto a Castorano dal segretario provinciale del Pci, Guido Cappelloni, Lucidi viene fermato dai Carabinieri in un bar mentre distribuisce copie dell’Unità agli iscritti al partito. Gli vengono sequestrate 17 copie e l’incasso delle copie già “vendute” agli iscritti al Pci del paese, pari a 60 lire.
Un evidente abuso di potere, a danno di una attività del tutto legale, come verrà riportato anche nel libro bianco del partito fra gli innumerevoli della autoritaria gestione Scelba dell’ordine pubblico. Ma che gli costa, a scopo chiaramente intimidatorio, il fermo, e una notte passata al Forte Malatesta di Ascoli, alla pari di un delinquente qualsiasi.
Lucidi sarà nominato assessore anziano nei suoi ultimi due mandati, dal 1956 al 1960 e dal 1960 al 1964, anno in cui lascia, a quarantatré anni, la politica attiva. Per diciotto anni filati è stato fra i pochissimi sempre presenti a tutte le riunioni dei consigli comunali di Castorano.
Il cantoniere
Nel frattempo, la famiglia di Giacomo e Gina è cresciuta. Dopo il matrimonio sono andati a vivere nella casa colonica insieme ai fratelli di lui, ma, dopo la nascita del loro primogenito, Clemente, che porta il nome della nonna paterna, nel 1956, decidono di prendere la loro strada. Nel 1959 arriva anche Emiliana. Flavia nel 1961. Giacomo ha partecipato con successo a diversi concorsi pubblici e, a un certo punto, addirittura può scegliere dove impiegarsi. Con un posto al sole vinto nelle Ferrovie dello Stato dovrebbe però traferirsi al sud. Sceglie di rimanere nella sua provincia diventando un cantoniere dell’Anas.
Primo incarico al cantone che da Quintodecimo si allunga lungo la vecchia Salaria fino a Favalanciata. Con i figli piccoli, Flavia, l’ultima nata ha solo pochi mesi, vi si trasferiscono, prima del riavvicinamento nella casa cantoniera di bivio Paggese, dove stanno rimangono per altri otto anni. Ultima sede del cantoniere Giacomo Lucidi, dal giugno del 1969, la casa cantoniera alle porte di Brecciarolo, quando Monticelli era ancora aperta campagna. Giacomo deve prendersi cura del tratto di Salaria che dal Villaggio del fanciullo arriva fino a via delle Zeppelle. Da Campolungo, passando per l’abitato di Brecciarolo fino al nuovo stadio comunale che verrà presto intitolato a Cino e Lillo Del Duca.
Proprio nella loro nuova parrocchia, accolta nella chiesetta delle suore della clinica San Giuseppe, grazie a don Roberto Pelletti, uno dei preti illuminati e aperti, fortunatamente ne esistono, Giacomo e Adele “Gina” potranno coronare, finalmente, il loro sogno di sposarsi, anche davanti a Dio, nel 1971. Per rinsaldare ancor di più un legame profondo, neppure scalfito dai ricorrenti malesseri di lei. Dopo l’ultima gravidanza, infatti, la moglie di Giacomo ha iniziato a soffrire di depressione, ed è toccato a sua madre, Cesarina, fare le sue veci in famiglia.
La mamma di “Gina”, Cesarina Cantalamessa, ha vissuto sempre con loro. Una presenza fissa importante, e rivelatasi provvidenziale, per poter crescere i suoi nipoti in una famiglia felice, destinata ad essere segnata da una improvvisa tragedia. Clemente, il figlio primogenito, viene colpito da un male oscuro per i tempi, che lo devasta. Resta ricoverato per sette mesi nel vecchio nosocomio di Ascoli, dove la sorella Emiliana, poco più che ragazzina, va ad assisterlo tutti i giorni. In corriera fino a piazza Arringo, e poi a piedi fin sull’Annunziata. Anche il professore di Chimica di Clemente all’Istituto Tecnico Agrario, Enrico Marini, che si è preso a cuore il suo allievo del II° anno andrà a trovarlo quasi tutti i giorni. In quei sette mesi Clemente affronta ben tre interventi chirurgici consecutivi per tentare di ridurre le gravi ulcerazioni che lo lacerano.
Morirà il 27 settembre 1972, due mesi prima del suo sedicesimo compleanno. Lo uccide una malattia autoimmune, il morbo di Crohn, all’epoca non ancora conosciuta, che oggi non fa più paura, ma che allora era letale per chi la contraeva.
Giacomo Lucidi continuerà a essere penalizzato dalle sue idee politiche anche in età matura. Le sue giustificate ambizioni di diventare capo cantoniere vengono disattese solo per questo al compartimento dell’Anas di Ancona da cui dipende. La sua militanza politica giovanile lo ha marchiato a vita. Segno, questo, che la modernizzazione dei tempi, l’istruzione largamente diffusa e il progresso generale, non sono bastati a cancellare pregiudizi e discriminazioni di carattere ideologico.
Dal 1987 anno del suo pensionamento fino al 2000, quando se ne va, vive a Monticelli in un condominio che affaccia proprio sul vicino Istituto delle suore di San Giuseppe. Non passa certo con le mani in mano gli anni più sereni della sua vita. Sa fare di tutto, avendo imparato a fare mille lavori, persino riparare vecchi giocattoli rotti. Sa sistemare ogni cosa: finestre, serrandine e porte che non chiudono bene, interruttori e impianti elettrici che fanno le bizze, ripara anche le scarpe sostituendo suole e sopratacchi. Una vera manna per vicini, amici e parenti.
Giacomo Lucidi se ne va il 17 giugno del 2000. Ha fatto in tempo, nove anni prima, ad assistere alla dissoluzione del “suo” Pci con la storica svolta di Achille Occhetto annunciata alla Bolognina nel febbraio del 1991. I comunisti italiani non saranno più i duri e puri di mille, nobili battaglie, in nome dei più alti ideali, e di un mondo migliore per tutti. Ma quelli come Giacomo Lucidi hanno avuto il merito di crederci. E di lottare per tentare, almeno, di costruirlo, quel mondo.
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