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Un fiume di legna
La fluitazione sul Castellano

ASCOLI - Un'epopea umana e lavorativa tra la fine dell'800 e l'inizio del secolo successivo, che arrivò a coinvolgere 2.000 persone. Quando i tronchi venivano fatti scendere a valle sfruttando la corrente delle acque: storia, modalità e immagini nel nuovo articolo di Gabriele Vecchioni e Narciso Galiè
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La “parata” a Porta Vescovo

di Gabriele Vecchioni e Narciso Galiè

(Foto di Gabriele Vecchioni e d’epoca)

«Sulla riviera del Castellano che si allarga a levante è il principale deposito delle legna di faggio che a mezzo della fluitazione vengono trasportate sin qua dai boschi della Valle Castellana nella Provincia di Teramo». Così Giulio Gabrielli, nel 1882, descriveva la parte finale dell’avventura della fluitazione, una pratica che si teneva lungo il Castellano, uno dei corsi d’acqua che attraversa la città picena.
A tale pratica la benemerita manifestazione “Festival dell’Appennino” (con la quale gli autori dell’articolo hanno collaborato più volte) dedicò un evento nel 2015, la mostra “Un fiume di legna”, nell’ambito di una serie di manifestazioni, tra le quali un’escursione guidata nei luoghi che videro gli avvenimenti descritti (nella zona di Pietralta, frazione del comune di Valle Castellana). Tutto nacque da un’idea di Andrea Antonini, già assessore provinciale e pronipote di Vincenzo Caucci, imprenditore ascolano e figura di riferimento delle operazioni legate alla fluitazione.
Un memoriale di Costantino Caucci, figlio di Vincenzo, l’ultimo dei titolari dell’attività, ha permesso di ricostruire i dati economici dell’industria. Quella della fluitazione fu una vera e propria epopea lavorativa, che ebbe inizio nella seconda metà dell’Ottocento e durò ininterrottamente fino al 1903. Erano circa 2.000 i lavoratori coinvolti nelle operazioni, direttamente o nell’indotto: un numero rilevante, se si pensa che la città di Ascoli, punto di arrivo delle operazioni, aveva una popolazione di 20.000 abitanti.

Il recupero alla Cartiera Papale

La fluitazione è un metodo di trasporto del legname in tronchi galleggianti su un corso d’acqua che lo trasloca a valle con la forza della corrente. Si tratta di un mezzo di trasporto molto economico ma, al tempo stesso, fortemente limitante perché il luogo di taglio e di esbosco devono essere situati lungo il corso del fiume, così come il luogo di arrivo del prodotto. Si tratta di una tecnica antica, pericolosa per i danni che può provocare a cose e persone; inoltre, poteva causare l’ostruzione dei corsi d’acqua, oltre alla perdita e al danneggiamento del legname.
Il trasporto era regolato per legge: l’ultima normativa relativa al problema è il Regio decreto numero 523 del 1904 (Testo unico delle disposizioni di legge intorno alle opere idrauliche delle diverse categorie), che prevedeva una serie di articoli relativi al «trasporto dei legnami a galla», effettuato con il metodo «a tronchi sciolti». Era uno dei sistemi più diffusi nelle valli alpine, dall’epoca del Basso Medioevo fino alla fine dell’Ottocento, legato, oltre all’economicità del sistema, alla mancanza di strade carrozzabili e di vie di comunicazione adatte. Questa pratica terminò con lo sviluppo dei trasporti meccanici che resero non più conveniente la sua utilizzazione.
Fino all’inizio del Novecento, questa operazione veniva effettuata anche nella nostra zona, sfruttando le acque del Castellano, un corso d’acqua non navigabile che scorre in una valle stretta, dai fianchi ripidi. Lungo il torrente non c’erano ancora sbarramenti artificiali (le attuali dighe di Talvacchia e di Casette) e opere di regimazione (risalenti agli anni Venti e Trenta del Novecento) e il corso d’acqua aveva una portata superiore a quella attuale.
I tronchi, dopo aver subìto la sramatura, venivano convogliati in bacini di raccolta appositamente preparati e ammucchiati fino a quando la quantità d’acqua raccolta era ritenuta sufficiente per creare una piena artificiale e trasportare a valle il legname. Il passaggio intermedio in un bacino artificiale era necessario perché il fiume non aveva abbastanza acqua per spingere una grossa massa di legname e occorreva, di conseguenza, aumentarne il volume e la forza propulsiva. Il serbatoio era realizzato con la costruzione di sbarramenti provvisori in punti dove il corso d’acqua scorreva in un alveo stretto, con le sponde ostruibili con facilità.
A differenza dell’Italia settentrionale, dove la fluitazione era piuttosto diffusa (specie nell’area della Carnia) ed esistono diversi lavori a stampa che descrivono gli interventi effettuati, nella nostra zona sono rari gli scritti che raccontano queste interessanti operazioni. Da immagini d’epoca, realizzate su lastre di vetro e di proprietà degli eredi della famiglia Caucci, riemerge però la storia dell’impresa. Negli ultimi decenni dell’Ottocento fino ai primi anni del Novecento, dai boschi della Laga (dal Bosco Martese di Pietralta) «la legna veniva fatta scivolare a valle e ammassata sul greto del Castellano». Successivamente, veniva sfruttata la forza dell’acqua per farla arrivare in città.

Una cartolina d’epoca

Si ricordano i termini che indicano il percorso dei tronchi trasportati dall’acqua (la menata) e la fermata (la parata) e sono, sostanzialmente, gli stessi che venivano usati nell’area veneta; non c’è, invece, quello che indicava le dighe provvisorie che, in Italia settentrionale, venivano chiamate stue. Gli sbarramenti venivano poi sfasciati in modo che i tronchi, trasportati dalla corrente, potessero arrivare fino ad Ascoli, incanalati nella valle del torrente. La forza dell’acqua, aiutata dalla pendenza dell’alveo fluviale, scuoteva le rive e, insieme alle “spalle di legna”, portava via tutto quello che incontrava sul suo cammino. I fusti recisi venivano trasferiti con incredibile velocità fino al punto di arrivo previsto.
Lungo il percorso erano dislocati boscaioli esperti (le sentinelle) che avevano il compito di controllare che tutto andasse per il verso giusto. In Veneto, essi erano chiamati menàus e sovrintendevano alla menada; dovevano controllare la corretta fluitazione e disincagliare i tronchi che, durante il trasporto, si fossero arenati e accatastati lungo le rive e mantenerne la rotta. Anche nel caso delle operazioni che si effettuavano lungo il Castellano, erano utilizzate maestranze provenienti dall’Italia settentrionale.

Un altro momento della parata

Questa attività era tenuta in conto tanto che, nel 1879, La Gazzetta di Ascoli Piceno, periodico ebdomadario (settimanale) d’interessi locali, informava che erano due le imprese che esercitavano la fluitazione sul Castellano, una di Ascoli e l’altra di Teramo, auspicando che «altri imprenditori si facciano avanti». Nel 1891, la Gazzetta Provinciale riporta la notizia che opere di protezione delle sponde dall’erosione del fiume (mura di rinforzo), deliberate e costruite dall’Amministrazione municipale, «danneggiano le attività commerciali della società di fluitazione Cavucci-Di Re».
Il viaggio del legname terminava a Porta Vescovo, nel tratto sottostante i palazzi della curia vescovile, vicino al centro cittadino (dove oggi è ubicato il parcheggio di Porta Torricella); qui venivano approntati cavalletti di legno e catene che avevano il compito di fermare la corsa forsennata dei tronchi (la ripresa). A mano a mano che questi si ammucchiavano contro lo sbarramento, l’acqua defluiva e il fiume tornava alla sua portata regolare, permettendo la raccolta della legna e la sua dislocazione lungo le rive, in apposite cataste, in attesa del trasferimento nei luoghi di vendita e di utilizzazione.

Il Castellano nei pressi del ponte Tasso

Un tratto del fiume Castellano

La mostra “Un fiume di legna” (2015)


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