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I cippi confinari tra il Re­gno di Na­poli
e lo Stato della Chiesa

LA LUNGA VITA della linea di demarcazione tra Marche e Abruzzo, «la frontiera che in Europa è durata più a lungo». Nel 1846 vennero posizionati 686 segnali di pietra, nu­merati progressivamente, dalla costa tirrenica a quella adriatica. Un lavoro difficile in territori ostili, di cui ancora oggi si rinvengono tracce
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Il cippo numero 592, alla Macera della Morte, nel punto di confine di tre regioni (Marche, Lazio e Abruzzo)

di Gabriele Vecchioni e Narciso Galiè

(foto di Gio­vanni Fazzini, Antonio Palermi e Ga­briele Vecchioni)

La nostra zona è stata per secoli “terra di frontiera” tra entità statuali diverse. L’ultimo con­fine, quello tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli, fu spazzato via dagli eventi che por­tarono al­l’uni­ficazione d’Italia sotto Re Vittorio Emanuele II. La linea di confine tra i Regni preunitari andava dal Mar Tirreno al Mare Adriatico (dalla foce del torrente Can­neto, tra Fon­di e Terracina, a quella del Tronto, tra Martinsicuro e Porto d’A­scoli, dove un ponte di bar­che collegava le due rive), era lunga poco meno di 400 chilometri e passava per le zone dell’Ap­pennino che, oggi, sono “terre di confine” tra le regioni Marche e Abruzzo.

Il cippo confinario 577, non lontano dai Pantani di Accumoli. Sullo sfondo, Castelluccio e i Monti Sibillini

Il confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie fu definito, dalla sto­rica inglese Georgina Masson, «la frontiera che in Europa è durata più a lungo» (circa 13 secoli). La sua storia risale infatti al VI secolo, quando i Longobardi del Ducato di Benevento oc­cu­parono la parte meridionale del Ducato bizantino di Roma (l’attuale provincia di Fro­si­none). Qual­che secolo dopo, sotto i Normanni, la stessa parte diventò “Terra di Lavo­ro”, all’interno dei confini del Regno di Sicilia. La divisione durò fino al 1861, an­no in cui fu proclamato il Regno d’Italia, determinando la sparizione di due Stati (quel­lo Pontificio e il Regno delle Due Sicilie) e l’unificazione politica della penisola italiana.
La nostra zona è situata nelle vicinanze dei due corsi d’acqua, il Salinello e il Tronto, che co­sti­tuivano la frontiera naturale dei due Regni; ancora oggi, il Tronto è il fiume di confi­ne tra le regioni Abruzzo e Mar­che (gli abitanti delle due sponde opposte sono ancora chia­mati, in maniera scherzosa, “regnicoli” e “papalini”). Alle pendici deiMonti Gemelli corre la storica stra­da “Mare Monti” (è la Piceno-Aprutina, statale 81), tra Ascoli Piceno e Ci­vi­tella del Tron­to, dove esi­stevano (a Villa Passo) le strutture doganali tra il Regno Borbo­nico e lo Stato Pon­tificio. Dell’antica frontiera, delimitata con la Convenzione dei confini del 1840 tra Papa Gregorio XVI e Re Fer­di­nando II e scom­parsa nel 1861, soprav­vi­vono oggi alcune pietre confinarie, spesso incise, come “testimo­ni di pietra” de­gli eventi di allora.

Il cippo 600 a Villafranca, antico posto di frontiera vicino a Castel Trosino (Ap). Ben visibile la «modanatura piatta» alla base del cippo cilindrico, prevista dal protocollo

La demarcazione del confine, tutt’altro che “impermeabile”, tra i due Regni si era resa ne­cessaria per alcuni episodi avvenuti qualche decennio prima. Alla fine del Settecento, in­fatti, gli abitanti di diversi paesi di confine si erano trasferiti “in blocco” nello Stato Pon­ti­ficio, portando con sé greggi e armenti. Una prammatica (regola con­sue­tudina­ria) del 1779 imponeva che «che niuno si porti fuori del Regno per fissare altrove il domi­cilio»; era stata emanata «coll’occasione che nell’anno 1766 molte genti Abruzzesi confi­nanti veni­vano al­lettate da’ Romani ad abbandonare le proprie Terre e passare ad abitare nello Stato ro­mano, onde si vedeva il danno notabile di quelle Provincie, e per conse­guenza del Re­gno, così per la mancanza delle popolazioni, che per lo mal esempio».
Tullio Aebischer ha chiarito (2012) che «Le controversie territoriali creavano problemi alla riscossione delle tasse, all’esatto estimo del territorio, alla lotta al banditismo e costrin­ge­vano i proprietari frontalieri a doppie tassazioni. Non meno importanti erano i problemi che sorgevano in occasioni di epidemie (colera, peste)».
Il Trattato di confinazione del 26 settembre 1840 (aggiornato nel 1846) prevedeva l’installa­zione di 686 segnali di confine, nu­merati progressivamente, dalla costa tirrenica a quella adriatica (la numerazione effettiva va da 1 a 649 perché alcuni termini hanno lo stesso numero seguito da una lettera dell’alfabeto); attualmente, è rintracciabile la metà circa delle colonnette. Il cippo confinario era costituito dal plinto, la parte basale sot­ter­ranea formata da un pa­ralle­lepipedo a base quadrata (il “radicone”), e da una parte cilindrica epigea, «in vista», al­ta circa 1 metro e mezzo, che recava, da un lato, il giglio dei Borbone di Napoli e un nu­mero progressivo, dall’altro le chiavi pontificie decussate (in­crociate) e l’anno di collo­ca­zione (sul versante adriatico, 1847) dopo la ridefinizione dei confini con un ac­cordo tra i go­ver­nanti (Pa­pa Pio IX e Re Ferdinando II). Dato il loro notevole peso (più di 500 chili, ma po­tevano arrivare a 1000!), venivano preparati in loco. Le colonnine non venivano po­si­zionate a una distanza costante l’una dall’altra ma collo­cate secondo la conformazione del terreno, in punti significativi (valli, rilievi mon­tani, rive di fiumi e centri abi­tati), in ma­niera tale che lo stemma delle chiavi di San Pietro ″guardasse″ in di­re­zione del ter­ritorio dello Stato Pontificio e il giglio borbonico si rivol­gesse verso il Regno delle Due Sicilie. La linea incisa sul cupolino apicale del termine indi­cava la direzione del con­fi­ne.

Il cippo 616, riciclato in un’aiuola spartitraffico a Civitella del Tronto

I lavori di sistemazione dei termini lapidei iniziarono dal versante tirrenico nel­l’anno 1846 (le colonnette poste in quel periodo portano scolpita questa data, tutte le altre recano incisa la data dell’anno successivo). Da Marco Meriggi sappiamo che il controllo delle «267 miglia della frontiera, che si distende da Gaeta al Teramano» fu com­piuto dall’ingegner Filippo Cappelletti, che raccontò di avere spesso rischiato la vita «su quelle altissime montagne, per le fiere, e per l’inaccessibilità de’ luoghi che dove’ per­cor­rere e di notte e di giorno onde rinvenire i massi di pietre adatte e i materiali, che da altri ingegneri se ne era già dimostrata l’inesistenza»
Sotto ogni limite venne interrata una cassetta di legno contenente un me­da­glione (il “testi­mone“) recante lo stemma dei due stati e, sul verso, la scritta «Uno dei segni collocati per indicare la linea di confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie stabilita col Trattato conchiuso l’anno 1840». La presenza di questa voluminosa moneta celebrativa di grosse dimensioni (10 centimetri circa di diametro per il peso di 1 chilo), in metallo non prezioso – era di ghisa dorata, ma la gente ne equivocò il valore effettivo, causò l’ab­bat­timento e la rimozione di molti cippi.

Particolare delle incisioni sul fusto di uno dei cippi (spiegazioni nel testo). Sono ancora riconoscibili i segni dello scalpello

Una breve digressione sullo “strano” appellativo con il quale è conosciuto il Regno di Na­poli. Il nome “Regno delle Due Sicilie” fu scelto da re Ferdinando di Borbone dopo il Con­gresso di Vienna del 1815, che unificò il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia. Nel 1443, Al­fonso V d’Aragona aveva già riunito formalmente il Regno di Sicilia e il Regno di Na­poli, autonominandosi Rex Utriusque Siciliae (Re di entrambe le Sicilie). Fin dal XII secolo (quando l’Italia meridionale era sotto il dominio dei Normanni) si distingueva un Regno di Sicilia citeriore, «al di qua del Faro di Messina» (e quindi dello Stretto; era il Regno di Napoli) e un Regno di Sicilia ulteriore, «al di là del Faro» (l’isola vera e propria).
Per quanto riguarda l’area che va dall’Amatriciano alla costa adriatica, una zona che co­sti­tuiva la parte orientale dello Stato pontificio, i cippi erano poco meno di 60 (dal numero 592 posizionato alla Macera della Morte, sui Monti della Laga, fino all’ultimo, il 649, sulla costa adriatica). Non tutti sono rinvenibili; nella nostra zona, se ne trovano circa 20. Le colonnette lapidee si incontrano in diversi luoghi vicini alla città picena (Villafranca, Colle San Giacomo, Mal­tignano, Sant’Egidio alla Vibrata, Villa Lempa, Civitella del Tron­to), in po­sizioni a volte inaspettate (stipiti di cancelli, basamento di croci di ferro, ele­men­ti deco­rativi del sagrato di chiese, colonnine spar­titraffico, reperti in sale museali…), a raccontare un periodo interessante della nostra storia.

La poderosa struttura della Fortezza di Civitella del Tronto vista dalla Costa dell’Elce (Montagna di Campli). In primo piano, la frazione di Ripe

Restituzione grafica delle incisioni presenti sul fusto del cippo 621 di Villa Lempa (spiegazioni nel testo)


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