di Gabriele Vecchioni e Narciso Galiè
(foto di Giovanni Fazzini, Antonio Palermi e Gabriele Vecchioni)
La nostra zona è stata per secoli “terra di frontiera” tra entità statuali diverse. L’ultimo confine, quello tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli, fu spazzato via dagli eventi che portarono all’unificazione d’Italia sotto Re Vittorio Emanuele II. La linea di confine tra i Regni preunitari andava dal Mar Tirreno al Mare Adriatico (dalla foce del torrente Canneto, tra Fondi e Terracina, a quella del Tronto, tra Martinsicuro e Porto d’Ascoli, dove un ponte di barche collegava le due rive), era lunga poco meno di 400 chilometri e passava per le zone dell’Appennino che, oggi, sono “terre di confine” tra le regioni Marche e Abruzzo.
Il confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie fu definito, dalla storica inglese Georgina Masson, «la frontiera che in Europa è durata più a lungo» (circa 13 secoli). La sua storia risale infatti al VI secolo, quando i Longobardi del Ducato di Benevento occuparono la parte meridionale del Ducato bizantino di Roma (l’attuale provincia di Frosinone). Qualche secolo dopo, sotto i Normanni, la stessa parte diventò “Terra di Lavoro”, all’interno dei confini del Regno di Sicilia. La divisione durò fino al 1861, anno in cui fu proclamato il Regno d’Italia, determinando la sparizione di due Stati (quello Pontificio e il Regno delle Due Sicilie) e l’unificazione politica della penisola italiana.
La nostra zona è situata nelle vicinanze dei due corsi d’acqua, il Salinello e il Tronto, che costituivano la frontiera naturale dei due Regni; ancora oggi, il Tronto è il fiume di confine tra le regioni Abruzzo e Marche (gli abitanti delle due sponde opposte sono ancora chiamati, in maniera scherzosa, “regnicoli” e “papalini”). Alle pendici deiMonti Gemelli corre la storica strada “Mare Monti” (è la Piceno-Aprutina, statale 81), tra Ascoli Piceno e Civitella del Tronto, dove esistevano (a Villa Passo) le strutture doganali tra il Regno Borbonico e lo Stato Pontificio. Dell’antica frontiera, delimitata con la Convenzione dei confini del 1840 tra Papa Gregorio XVI e Re Ferdinando II e scomparsa nel 1861, sopravvivono oggi alcune pietre confinarie, spesso incise, come “testimoni di pietra” degli eventi di allora.
La demarcazione del confine, tutt’altro che “impermeabile”, tra i due Regni si era resa necessaria per alcuni episodi avvenuti qualche decennio prima. Alla fine del Settecento, infatti, gli abitanti di diversi paesi di confine si erano trasferiti “in blocco” nello Stato Pontificio, portando con sé greggi e armenti. Una prammatica (regola consuetudinaria) del 1779 imponeva che «che niuno si porti fuori del Regno per fissare altrove il domicilio»; era stata emanata «coll’occasione che nell’anno 1766 molte genti Abruzzesi confinanti venivano allettate da’ Romani ad abbandonare le proprie Terre e passare ad abitare nello Stato romano, onde si vedeva il danno notabile di quelle Provincie, e per conseguenza del Regno, così per la mancanza delle popolazioni, che per lo mal esempio».
Tullio Aebischer ha chiarito (2012) che «Le controversie territoriali creavano problemi alla riscossione delle tasse, all’esatto estimo del territorio, alla lotta al banditismo e costringevano i proprietari frontalieri a doppie tassazioni. Non meno importanti erano i problemi che sorgevano in occasioni di epidemie (colera, peste)».
Il Trattato di confinazione del 26 settembre 1840 (aggiornato nel 1846) prevedeva l’installazione di 686 segnali di confine, numerati progressivamente, dalla costa tirrenica a quella adriatica (la numerazione effettiva va da 1 a 649 perché alcuni termini hanno lo stesso numero seguito da una lettera dell’alfabeto); attualmente, è rintracciabile la metà circa delle colonnette. Il cippo confinario era costituito dal plinto, la parte basale sotterranea formata da un parallelepipedo a base quadrata (il “radicone”), e da una parte cilindrica epigea, «in vista», alta circa 1 metro e mezzo, che recava, da un lato, il giglio dei Borbone di Napoli e un numero progressivo, dall’altro le chiavi pontificie decussate (incrociate) e l’anno di collocazione (sul versante adriatico, 1847) dopo la ridefinizione dei confini con un accordo tra i governanti (Papa Pio IX e Re Ferdinando II). Dato il loro notevole peso (più di 500 chili, ma potevano arrivare a 1000!), venivano preparati in loco. Le colonnine non venivano posizionate a una distanza costante l’una dall’altra ma collocate secondo la conformazione del terreno, in punti significativi (valli, rilievi montani, rive di fiumi e centri abitati), in maniera tale che lo stemma delle chiavi di San Pietro ″guardasse″ in direzione del territorio dello Stato Pontificio e il giglio borbonico si rivolgesse verso il Regno delle Due Sicilie. La linea incisa sul cupolino apicale del termine indicava la direzione del confine.
I lavori di sistemazione dei termini lapidei iniziarono dal versante tirrenico nell’anno 1846 (le colonnette poste in quel periodo portano scolpita questa data, tutte le altre recano incisa la data dell’anno successivo). Da Marco Meriggi sappiamo che il controllo delle «267 miglia della frontiera, che si distende da Gaeta al Teramano» fu compiuto dall’ingegner Filippo Cappelletti, che raccontò di avere spesso rischiato la vita «su quelle altissime montagne, per le fiere, e per l’inaccessibilità de’ luoghi che dove’ percorrere e di notte e di giorno onde rinvenire i massi di pietre adatte e i materiali, che da altri ingegneri se ne era già dimostrata l’inesistenza»
Sotto ogni limite venne interrata una cassetta di legno contenente un medaglione (il “testimone“) recante lo stemma dei due stati e, sul verso, la scritta «Uno dei segni collocati per indicare la linea di confine tra lo Stato Pontificio e il Regno delle Due Sicilie stabilita col Trattato conchiuso l’anno 1840». La presenza di questa voluminosa moneta celebrativa di grosse dimensioni (10 centimetri circa di diametro per il peso di 1 chilo), in metallo non prezioso – era di ghisa dorata, ma la gente ne equivocò il valore effettivo, causò l’abbattimento e la rimozione di molti cippi.
Una breve digressione sullo “strano” appellativo con il quale è conosciuto il Regno di Napoli. Il nome “Regno delle Due Sicilie” fu scelto da re Ferdinando di Borbone dopo il Congresso di Vienna del 1815, che unificò il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia. Nel 1443, Alfonso V d’Aragona aveva già riunito formalmente il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli, autonominandosi Rex Utriusque Siciliae (Re di entrambe le Sicilie). Fin dal XII secolo (quando l’Italia meridionale era sotto il dominio dei Normanni) si distingueva un Regno di Sicilia citeriore, «al di qua del Faro di Messina» (e quindi dello Stretto; era il Regno di Napoli) e un Regno di Sicilia ulteriore, «al di là del Faro» (l’isola vera e propria).
Per quanto riguarda l’area che va dall’Amatriciano alla costa adriatica, una zona che costituiva la parte orientale dello Stato pontificio, i cippi erano poco meno di 60 (dal numero 592 posizionato alla Macera della Morte, sui Monti della Laga, fino all’ultimo, il 649, sulla costa adriatica). Non tutti sono rinvenibili; nella nostra zona, se ne trovano circa 20. Le colonnette lapidee si incontrano in diversi luoghi vicini alla città picena (Villafranca, Colle San Giacomo, Maltignano, Sant’Egidio alla Vibrata, Villa Lempa, Civitella del Tronto), in posizioni a volte inaspettate (stipiti di cancelli, basamento di croci di ferro, elementi decorativi del sagrato di chiese, colonnine spartitraffico, reperti in sale museali…), a raccontare un periodo interessante della nostra storia.
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