di Andrea Braconi
A Capricchia, frazione di Amatrice, si riparte da un caffè. E, scontato dirlo, da un piatto di pasta all’amatriciana. L’accoglienza, infatti, resta uno dei cardini sui quali 20 residenti (“Prima eravamo 22, poi alcuni sono tornati nel capoluogo”) si sono ricostruiti un’esistenza dopo il terremoto che due anni fa ha travolto il centro Italia.
È la prima tappa di una giornata a bordo del Defender di Pietro Ripani, 62enne accompagnatore di media montagna residente a Montefortino, profondo conoscitore dell’Appennino e delle sue infinite storie, oltre che amante più dello zucchero che dell’espresso. Una sequenza di viaggio, la nostra, che una volta lasciata la Salaria parte proprio dal Comune laziale, dove soltanto poche ore prima sono state ricordate le centinaia di vittime delle scosse del 24 agosto 2016.
Del caffè qui a Capricchia si occupa Egidia, conosciuta come Edy, che si definisce «clandestina da 25 anni» e che da quella notte di agosto è sempre tornata qui, «tutti i sabati e le domenica, in tenda, roulotte, camper, casette, de tutto e de più».
L’addetta alle tradizioni è invece Rossella: coltello e guanciale in mano, si prepara a soddisfare i palati di 50 ospiti che torneranno in questa frazione a 1.100 metri di altitudine, all’interno del Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga. Rossella ripercorre storia e ricette di due piatti richiestissimi come la gricia e l’amatriciana «Questo era un paese di pastori e con il tempo è venuta un po’ di ricchezza, da qui l’amatriciana con il pomodoro») e soprattutto come la tavola sia stata il centro di un’avventura inattesa ma al tempo stesso bellissima. «Questa è una grande famiglia, una comunità e oggi è il giorno fatale, quando ci siamo ritrovati in mezzo alla strada. Ma qui nella nostra Capricchia abbiamo trovato rifugio e abbiamo fatto convivenza tra 20 persone. Ci ha aiutato gente da lontano e abbiamo continuato così per un anno. Naturalmente questo stare insieme continua, abbiamo anche fatto un villaggetto chiamato Vittoria e dedicato ad una giovane ragazza originaria di qui e morta tra le macerie di Amatrice. Dopo tanta beneficienza ho imparato che anch’io volevo dare una parte di aiuto».
La ricostruzione? Molto lenta, troppo per chi è abituato a tirarsi con le proprie forze. «Non abbiamo visto niente. Ci sono ancora le macerie da togliere, quindi questo discorso non ci passa neanche per la testa. Io, avendo perso due case, spero di vederne ricostruita almeno una».
Capricchia è il paese del marito di Rossella. «Quella notte stavamo qua, altrimenti saremmo morti tutti. La mia abitazione era vicino al Ristorante Roma. Oggi viviamo in due in 40 metri quadri, ci stiamo bene, abbiamo comunque perduto tutto ma almeno la mia famiglia è salva. Siamo stati fortunati e oggi qui ho una seconda, grande famiglia».
Dietro Livia e Aldo, volontari della Croce Rossa Italiana, si stagliano i 2.458 metri del Monte Gorzano, il più alto del gruppo della Laga. Camminano, i due, tenendo per mano una signora di 92 anni che di questi panorami non è mai riuscita a fare a meno, neanche di fronte alla distruzione. «Qualche mese fa siamo stati ospiti a Porto San Giorgio per le Pro Loco in Festa -ricorda Aldo- e lì abbiamo fatto l’amatriciana, conquistando tutti. Per noi è importante continuare a parlare di Amatrice e delle persone che qui vivono».
Alessandra, dopo averci accolto, si siede sulla panca di fronte al bancone del bar, mentre giovani del servizio civile internazionale provenienti anche da Polonia, Benin e Bulgaria organizzano gli impegni della giornata. «Siamo rimasti sempre qui, abbiamo combattuto contro tutto e contro tutti. -dice Alessandra- Ma dove andavi? Però noi ci siamo fatti forza, la Pro Loco del paese ci ha dato questa possibilità, siamo rimasti qui, abbiamo cucinato qui, mangiavamo qui tutti insieme, con la neve abbiamo anche dormito qui dentro. Tanti disagi, ma era l’unica cosa da fare».
Perché certi luoghi non si abbandonano. Mai. «Abbandonare significa far morire il paese. Se avessimo mollato tutti oggi qui non ci sarebbe stato nessuno. Invece, anche grazie a chi qui aveva la seconde case che ci ha aiutato in tutti i modi, possiamo dire di avercela fatta. Abbiamo sistemato questo piccolo villaggio con delle casette di legno, dove la gente delle seconde case può tornare a dormire». Come Rita, che cammina orgogliosa della sua felpa con la scritta Amatrice. «Capricchia non s’abbandona, siamo una delle 69 frazioni di questo Comune e qui rimaniamo» aggiunge.
Nel settembre del 2017 sono arrivate le Sae, le soluzioni abitative di emergenza, ma lo Stato è avvertito ancora distante. «Amatrice? È il caos delle istituzioni. Noi non abbiamo visto lo Stato, sono venuti a fine settembre 2016 per portarci due bagni chimici, ma ad aprile del 2017 se li sono portati via dicendoci che avevamo comunque tanta natura intorno per fare i nostri bisogni».
Arquata del Tronto chiama. È tempo di riprendere la Salaria, “la via del sale” come ricorda Pietro, che non risparmia anche qualche racconto su passioni e pretese della Regina Giovanna, da quella Rocca che oggi porta i segni delle ferite del sisma. Si ritornano ad incrociare i container carichi di pietre, fondamentali in caso di ulteriori crolli dalla frazione di Pescara del Tronto, letteralmente spazzata via e dove non si tornerà a vivere, come annunciato dal sindaco Petrucci dopo il parere dei tecnici incaricati di valutare le opzioni per la ricostruzione.
Nella sede del Comune piceno c’è movimento. E non potrebbe essere altrimenti, nonostante la stanchezza per la veglia notturna. Ci sono giornalisti (alcuni improvvisati, quasi di ostacolo ad una normalità che viene modellata giorno per giorno) che richiedono pass per la zona rossa e persino per aree dove invece è possibile accedere liberamente. Vogliono “filmare le macerie”, che però continuano a muoversi e costringono i Vigili del Fuoco a far mantenere una distanza di sicurezza più elevata.
Dopo la polvere, i tanti varchi presidiati dall’Esercito e da militari rigorosi ma sempre disponibili, è l’ora di pranzo. Tappa obbligata Grisciano, dove l’unico dubbio è tra la scelta delle mezze maniche e degli spaghetti. La ricetta? Alla gricia, ovviamente.
Il ristorante, subito dopo il confine tra Marche e Lazio, è pieno. Non mancano gli arquatani, che sul loro presente hanno molto da dire, soprattutto su un’altra forma di ricostruzione: quella sociale e comunitaria. «Le realtà del volontariato, dai gruppi di Protezione Civile alle associazioni ambientaliste, vanno sostenute e supportate da progetti concreti. -sottolinea un giovane del posto – Un domani sul territorio rimarremo noi e queste forme di resilienza vanno aiutate, parallelamente alle attività commerciali. Anche perché da chi dovrebbero essere vissuti questi luoghi di aggregazione che, fortunatamente, ci vengono donati?».
La gricia diventa causa di un piccolo fallimento: l’appuntamento per accedere alla zona rossa di Accumoli. La ricerca del vigile urbano è vana, ma salire verso le varie frazioni, da Tino a Illica, permette di gettare lo sguardo alla quotidianità dentro e fuori le Sae. Di parlare non c’è voglia nel giorno del ricordo, ma gli occhi di chi ha scelto di restare contengono ogni sentimento possibile: paura, rabbia e qualche lacrima di speranza.
Si scende, per risalire. L’ultimo incontro, infatti, è al Rifugio degli Alpini nella frazione di Pretare, ad Arquata sul versante dei Sibillini. Lì Gino, nonostante sia già metà pomeriggio, ancora impacchetta gli avanzi del pranzo dei clienti. «Perché qui non si spreca nulla» riecheggia dalla cucina socchiusa. «Il lavoro c’è, non posso lamentarmi, anche se non è agli stessi livelli di prima del terremoto. Noi andiamo avanti, perché ci crediamo» ci dice con un filo di voce. Lassù, a Forca di Presta, il terremoto ha chiuso le porte al vecchio rifugio. Quaggiù, poche centinaia di metri più in basso, ha permesso a tante persone di ritrovare un motivo. Tra un genziana e una sigaretta. E l’immancabile caffè di Pietro, ricolmo di zucchero e di altre storie di montagne e di resistenza.
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