Il ponte abbandonato che ha fatto la storia
Qui i piceni si batterono coi romani
e “Sciabolone” si oppose ai francesi

ASCOLI - L'antico manufatto che sorge sul Gran Caso, lungo la Piceno Aprutina, è uno scrigno di eventi che meriterebbe più rispetto; giace in stato di decadenza, dimenticato da tutti. In età Augustea era luogo di notevole transito e per secoli ha scandito la vita della città facendo da sfondo a battaglie e leggende
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Il ponte sul Gran Caso

di Mario Troiani

All’uscita di Ascoli, verso est, prima della caserma militare, dal ponte sulla Piceno Aprutina guardando attentamente a destra, è possibile vedere un altro ponte, seminascosto tra il verde e in stato di grave abbandono: è il ponte del Gran Caso, che in età Augustea era luogo di notevole transito, contando la città picena più o meno gli stessi abitanti che ha oggi.

La lastra di travertino che testimonia il rifacimento di fine ‘700

Il ponte è ad una arcata, con luce di 6,20 metri e larghezza di 4,20 metri, rispetto al livello dell’acqua del torrente sottostante il piano di calpestio è a 10,30 metri.
La struttura ha subito, nei secoli, numerosi rimaneggiamenti, l’ultimo dei quali alla fine del ‘700, come documentato su una lastra di travertino, posizionata nel lato nord-ovest del ponte, su cui si nota uno stemma vescovile, esso menziona due personalità: Antonio Tomati di Asti, che fu governatore di Ascoli dal 1781 al 1786, e Simone Francesco Nozzi, di famiglia nobile ascolana, maestro delle strade come documentato nelle Riformanze nell’anno 1780 nel volume degli atti, alla carta 103 (13 dicembre 1780), dove si certifica che il Nozzi chiese uno stanziamento di nuovi fondi per il riattamento della “Salara”, che, dal contesto, risulta corrispondere alla moderna Piceno Aprutina, almeno in questo primo tratto. Questa strada è allineata con il ponte di Cecco, posto all’ingresso est della città. Le numerose testimonianze archeologiche riesumate (arche sepolcrali, statue di marmo, capitelli corinzi, aghi di osso e lucerne), rivelano la presenza di sepolcri lungo la strada, come era in uso presso i Romani i quali, ponendo lì le loro tombe monumentali, volevano impressionare i viandanti che si accingevano ad entrare in città.
Il Gran Caso, in dialetto “lu ran casc”, deriva il suo nome, dal latino “casus”, nella sua accezione di sventura, evento infelice, disastroso, considerate le battaglie avvenute nei pressi delle sue sponde. La “colorita” leggenda popolare ama fa derivare il suo nome dal fatto che il torrente che scorreva sotto il ponte, nasceva ai piedi di quella particolare conformazione rocciosa, chiamata il Dito del Diavolo, considerato un simbolo fallico. Il nome Gran Caso si vuole ricollegare agli eventi cruenti avvenuti in quei luoghi il 25 dicembre dell’anno 89 a.C. e di cui ne fu artefice Gneo Pompeo detto Strabone, in quanto strabico, eventi per i quali fu in seguito festeggiato in Campidoglio, con i “De Asculaneis Picentibus”, onori che erano tributati solo per imprese difficili e quando i nemici morti ammontavano almeno a cinquemila. Nei pressi del Gran Caso, in quel giorno, si scontrarono ben 75.000 romani e 60.000 piceni; a testimonianza della battaglia sono i numerosi proiettili di piombo rinvenuti. Pompeo Strabone vantava grossi legami con la Spagna e con Fermo, la sua città di origine, di qui la scritta FIR sulle ghiande missile recuperate. La storia ci racconta che, nelle fila dell’esercito romano c’erano ai suoi ordini, centinaia di frombolieri, e dalla Spagna vi erano convogliati i cavalieri della cosiddetta “Turna Sallutiana”, ritenuti i maggiori artefici della conquista di Ascoli. L’accampamento romano si trovava a sud del fosso Gran Caso, verso l’altopiano di Tozzano, dove si trovano alcuni colli ancora detti di “Pompè”.

Il ponte visto dall’alto

Un secondo importante avvenimento accadde nelle vicinanze, intorno al 400, con l’assedio di Alarico; lo scontro fu particolarmente cruento tanto che le acque del torrente si tinsero del rosso del sangue dei cadaveri. Si narra però che i Goti si dettero alla fuga, spaventati dall’apparizione di Sant’Emidio sopra le mura di Ascoli. Un ulteriore sanguinoso evento si ebbe nel 1799 tra le truppe repubblicane francesi che si scontrarono, nella stessa zona, con i briganti capeggiati da Giuseppe Costantini di Lisciano, detto ”Sciabolone “ (Santa Maria a Corte 15/2/1758 – Capua 26/3/1808).
Un altro doloroso fatto, molto più recente ma altrettanto cruento, avvenne il 12 settembre 1943, quando i partigiani attesero la colonna dei tedeschi in fuga verso la Piceno Aprutina e che intercettarono proprio vicino al Gran Caso. Appostati insieme agli avieri della caserma sul ponte della ferrovia e sui tetti delle case adiacenti, attaccarono i tedeschi: ne nacque un conflitto a fuoco con decine di feriti e caduti da entrambi le parti. Dopo la resa dei tedeschi, fu stipulato un accordo che portò al vicendevole scambio dei prigionieri. In seguito, il 3 ottobre, un gruppo di paracadutisti, in rotta dopo aver lasciato Cassino, a San Benedetto del Tronto deviò per arrivare ad Ascoli e inseguire i partigiani fin sul colle San Marco, dove avvennero le tristi vicende che conosciamo .


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