di Luca Capponi
«La prima volta che sono salito sul palco era il 1 gennaio del 1946, avevo 15 anni e 3 mesi, recitavo per una compagnia parrocchiale ne “La notte del vagabondo”. Da allora ho avuto l’idea che il teatro fosse la mia vita, ma non l’ho mai fatto per diventare famoso o perché qualcuno mi dicesse bravo; ho sempre pensato che, nella mia piccolissima possibilità, potevo aiutare la gente a capire meglio la vita».
Un vero mito: Glauco Mauri
Quando si è grandi si è grandi davvero. E oltre 70 anni di arte scenica sono lì a certificarlo. Ma non solo. Perché Glauco Mauri è artista a 360 gradi, cioè anche nel rapportarsi con gli altri: cordiale, disponibile, lontano dagli snobismi, accorato ma umile nel parlare di una carriera che pure è da record. Lui, marchigiano classe 1930 (è di Pesaro), ha passato l’esistenza a recitare. Tanto di tutto, con successo internazionale, ma soprattutto Shakespeare e Dostoevskij. Proprio di quest’ultimo, venerdì 29 e sabato 30 marzo alle 20,30, porterà al Ventidio Basso “I fratelli Karamazov” insieme a Roberto Sturno, per la regia di Matteo Tarasco.
Non è la prima volta per lui. «Vero, negli anni ’50 facevo Smerdjakov ed ero il più giovane della compagnia, adesso naturalmente sono il più vecchio. E’ come un cerchio che si chiude» racconta. «Arriviamo ad Ascoli, e lo dico con rammarico, per la seconda volta in 38 anni di vita della compagnia (la Mauri Sturno, ndr); la prima fu a metà anni ’90 con “La tempesta” di Shakespeare -prosegue-. La scelta de “I fratelli Karamazov” è dettata dal cercare testi che parlino della fatica del vivere, delle delusioni, della bellezza e delle brutture che a volte l’uomo può commettere. Dostoevskij è dunque un autore ideale, poiché parla della natura umana sempre cercando di capire e senza mai giudicare, quasi con un senso di pietà verso l’uomo, che è fatto di luci e ombre».
Mauri e Sturno
Un testo che, ovviamente, tra i suoi pregi vanta un’attualità che a tratti sconcerta. «Quella dei Karamazov -continua Mauri- è una famiglia dove si intersecano tra di loro amore, gelosia, lussuria, denaro: cos’è la nostra società oggi? Un luogo incapace di comprendersi, dove a volte anche l’amore viene disciolto in una specie di delitto. Il nostro intento è di dire che nella società odierna è pieno di situazioni simili, anche se nel testo sono naturalmente portate all’estremo. Non dimentichiamoci che Dostoevskij andava nei commissariati a chiedere dei fatti accaduti, ciò gli permetteva di attirare l’attenzione pubblico con storie avvincenti e di aprire crepe in cui parlava dei problemi veri dell’uomo». «La versione che ne abbiamo tratto è fedelissima ma particolare, un giallo dell’anima che emoziona -va avanti il grande attore-. Credo che il teatro debba servire anche a questo, a emozionare prima di tutto. Poi, col bisturi della razionalità, a cercare di capire perché ci si è emozionati. Noi attori e registi abbiamo una grande responsabilità, quella di raccontare favole che possono aiutare per lo meno a comprendere quel percorso a volte meraviglioso e a volte molto difficile che è la vita».
Mauri in “Profondo Rosso”
Una vita sulle tavole del palcoscenico, si diceva. Che ha avuto alcune parentesi davanti alla macchina da presa cinematografica. «Pochissime», sottolinea. Già, ma di grande qualità. Basti citare “La Cina è vicina” di Marco Bellocchio (1967), “Profondo Rosso” di Dario Argento (1975) o “Ecce Bombo” di Nanni Moretti (1977). «Non so perché mi scegliessero -ammette- avevo fatto poco cinema e, tra l’altro, confesso che la macchina da presa non mi ha mai commosso né ha agitato la mia fantasia come ha fatto il teatro. Non ho mai avuto l’impressione che Rigoletto o Gary Cooper cantassero e recitassero per me, con la prosa invece questo accadeva e mi faceva un effetto enorme: c’era un uomo davanti a te che ti parlava della vita, sembrava la raccontasse solo a te e potevi quasi rispondergli. Tutto ciò mi ha influenzato moltissimo».
Già, ma il potere dell’immagine può essere soverchiante. E Mauri lo sa bene. «A volte resto perplesso, io che ho recitato in 500 “Macbeth” o “Re Lear”, quando mi dicono che la cosa più bella che ho fatto è “Profondo Rosso” -conclude-. Di quel film ho un ricordo gradevolissimo, più umano che artistico, soprattutto per merito del regista Dario Argento. Nella scena in cui vengo ucciso dovevo andare continuamente al trucco ogni volta che mi veniva inferto un colpo al viso, ci vollero trenta trucchi uno dietro l’altro per deformarmi il volto. Divenni anche amico del protagonista David Hemmings, che venne a vedermi a teatro ne “La bisbetica domata”. Ne rimase talmente conquistato che il giorno dopo quasi si vergognava di salutarmi».
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