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Icona del mistero:
la Sacra Sindone di Arquata

STORIA e significati del reperto che dopo il sisma è stato trasportato e conservato nel Duomo di Ascoli. Dal "collegamento" con l'originale (1931) fino alla pergamena che ne attesta l'autenticità e alle recenti prove strumentali ad alta tecnologia da parte dei laboratori romani dell’Enea
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La sistemazione attuale della Sindone di Arquata, nel duomo di Ascoli. Dietro si intravvede la tela del Trasi sulla decollazione di Sant’E­midio (foto nel testo di Gabriele Vecchioni e Italia Nostra)

di Gabriele Vecchioni

Il sisma che, nel 2016-17, ha colpito l’area montana del Piceno, oltre a causare gravissimi danni alle case e alle infrastrutture, ha provocato danni ingenti anche a beni architettonici e artistici. A Borgo, una delle frazioni di Arquata, è crollato il tetto della chiesa di San Francesco, addossata all’omonimo edifi­cio conventuale, provocando gravi danni alle opere d’arte in essa presenti. Nell’edificio era custodita una copia della Sacra Sindone, l’originale della quale è esposto a Torino. Il telo non ha subito danni ed è stato trasportato nel Duomo di Ascoli Piceno, dove è esposto nella Cappella del Sacramento.

La Cappella, nella cattedrale di Ascoli Piceno, è un’autentica “stanza delle meraviglie”. Nel locale, già decorato (nei bracci laterali) in maniera splendida da tele di Ludovico Trasi (sec. XVII), coesistono diverse opere: il magnifico Polittico di Sant’Emidio di Carlo Crivelli (tempera e olio su tavola, 1473); il paliotto d’argento (secc. XIV-XV), con storie del Nuovo Testamento; sull’altare, il cosiddetto Tabernacolo di San Vit­tore, in legno dipinto (sec. XVI); la copia della Sindone e il crocifisso ligneo, provenienti dalle chiese lesionate di Arquata.

Un sottopasso introduceva al chiostro del convento di Borgo di Arquata

Prima di trattare della Sindone, vediamo brevemente le caratteristiche della chiesa che la ospitava. La chiesa di San Francesco di Borgo di Arquata è (era?) un edificio della seconda metà del sec. XIII, completato a più riprese nei secoli successivi, a cominciare dai due portali d’ingresso, cinque­centeschi. L’interno è a due navate, divise da pilastri quadrati. Il soffitto a cassettoni, la cantorìa (sostenuta da un pilastro di pietra arenaria con capitello decorato a motivi floreali) e gli altari lignei con colonne intagliate, di scuola nursina, sono dei secc. XVI e XVII. Il coro ligneo, sistemato nella parete opposta all’ingresso, è quattro­centesco.

Il tetto crollato per le scosse successive

Presente anche un bell’altare in pietra e stucco, dedicato alla Madonna del Rosario, con l’immagine centrale di Carlo Allegretti (sec. XVII) contornata da 15 formelle con la rappresentazione dei misteri. Sulla parete opposta, un affresco del 1527, attribuito alla scuola di Cola dell’Amatrice. In fondo, a destra, la teca che conservava la copia del Sacro Sindone e un imponente altare dedicato a San Carlo Borromeo, storico adoratore della stessa.
Per inciso, ricordiamo che il cardinale Carlo Borromeo (poi santo) camminò cinque giorni per andare a piedi da Milano a Torino a con­templarla e sciogliere così il voto fatto durante la peste del 1576. La storia di San Carlo ha un collegamento con quella di Ascoli: fu nominato cardinale a soli 12 anni dallo zio, Papa Pio IV Medici, lo stesso che volle la ristrutturazione della Fortezza Pia che poi prese il suo nome (qui l’articolo).

La Cappella del Sacramento, nel Duomo di Ascoli

La storia, il significato. La Sindone di Torino era di proprietà dei Savoia e si trovava a Chambéry, in Francia; fu trasferita in Italia solo nel 1578; il suo culto pubblico era stato autorizzato nel 1506 dal papa francescano Giulio II Della Rovere. È diventata proprietà del Vaticano nel 1983, per volontà testamentaria dell’ex-Re d’Italia, Umberto II di Savoia.
Considerata una reliquia da molti papi (Giovanni Paolo II Wojtyla, recentemente santifi­cato, la definì «la reliquia più splendida della Passione e della Risurrezione»), la Sindone fu definita «straordinaria icona» da Papa Benedetto XVI Ratzinger. Fu lui a dare la defini­zione della Sindone come di «un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo croci­fisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù», completando poi l’as­serzione: «[…] l’immagine impressa è quella di un morto, il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al co­stato». Quella macchia, interpretata dai credenti come dovuta al sangue fuoriuscito dalla ferita inflitta a Gesù dalla lancia di Longino, assume un significato particolare anche per la Sindone di Arquata, come vedremo più avanti.
La Sindone di Arquata. La Sindone è uno dei più potenti talismani della Cristianità. La parola “talismano” va intesa in senso etimologico: deriva dal greco télesma (rito religioso) e indica un oggetto al quale si attribuisce grande potere.

La navata di destra della chiesa in fondo alla quale era l’altare di San Carlo Borromeo e la teca della Sindone, decorata da «cento lumi», come quelli che la accom­pagnavano durante le proces­sioni in occasione di carestie, siccità e guerre.

Una volta accettata l’autenticità del reperto torinese, era coerente la creazione di copie, per la venerazione dei fedeli. Esistono diverse copie della Sindone (ce ne sono anche in un monastero canadese, in uno statunitense e in Messico), tutte in positivo, mentre l’im­ma­gine originale è come un negativo fotografico. Se ne conoscono 36 datate e 34 (tra le quali quella arquatana) senza la data: in totale, sono 70, delle quali 40 in Italia. Sono opera di artisti ignoti che riproducevano su teli lunghi più di 4 metri e larghi 60 centimetri circa, l’imma­gine di una figura umana sia in vista frontale sia dorsale e le tracce ematiche delle ferite inferte du­rante la Passione (prima la flagellazione, poi la crocifissione). Una delle copie è quella di Arquata, considerata, insieme con il crocifisso ligneo (sec. XIII, anch’esso attualmente in deposito nella Cappella del Cri­velli), un simbolo potente al quale chiedere l’esaudimento di grazie.

Il soffitto ligneo a cassettoni della chiesa di San Francesco a Borgo di Arquata. A destra, gli effetti della prima scossa (agosto 2016)

La copia della Sindone arquatana fu messa a contatto diretto, una seconda volta, con l’ori­ginale (il Sacro Lino di Torino) nel 1931, in occasione della sua ostensione. I contatti tra reliquie rafforzano la “potenza” delle riproduzioni: secondo le convinzioni cristiane, il reperto ori­ginale trasmette parte delle sue proprietà alla copia già nell’atto della riproduzione e, successivamente, si rinnova al contatto.
Il ritrovamento della Sindone di Arquata è relativamente recente, come precisa lo “Studio multidisciplinare della Sindone di Arquata del Tronto EX­TRACTUM AB ORIGINALI” (ENEA, 2015): «Durante i lavori di restauro della chiesa di S. Francesco presso Borgo di Arquata del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno, nel 1980 viene ritrovata una doppia urna di legno dorato, celata nella nicchia di un altare». Nell’urna, c’era il telo sacro.

La pergamena di accompagnamento, che conferma l’autenticità della copia della Sindone di Arquata, è in possesso di don Alberto Bucciarelli. Risale al maggio del 1655 e attesta che, a richiesta del vescovo Giovanni Paolo Bucciarelli (già segretario del Car­dinale Federigo Borromeo, cugino del Santo e citato dal Manzoni nei “Promessi Sposi”) e alla presenza di una commissione, un telo di lino della stessa misura della Sindone fu fatto combaciare con essa. Nel già citato lavoro dell’ENEA si afferma che «Il documento riporta che il 4 Maggio 1653, durante l’ostensione della Sacra Sindone nella piazza di Castelgrande a Torino, monsignor Brizio stese e fece toccare sull’originale una copia conforme della Sindone, su tela di lino dipinta, larga 5 palmi e lunga 20, che gli era stata consegnata da padre Massimo Buc­cia­rel­li, al quale fu restituita al termine della cerimonia». Massimo Bucciarelli era un religioso, fratello del già citato ve­scovo arquatano Giovanni Paolo Bucciarelli.
Nella pergamena non c’è alcun accenno al sistema usato per il trasferimento. Di solito, al­l’epoca, si usavano cilindri metallici scaldati che premevano l’originale sulla copia, permettendo così il trasferimento di particelle infinitesimali da un telo all’altro.

All’ingresso della “Cappella feriale” nella chiesa di Casa Santa Maria, a Pagliare di Spinetoli, sono esposte due riproduzioni fotografiche (“in negativo” e “in positivo”) della Sindone di Torino

Alla sua morte (1656), monsignor Bucciarelli lasciò il telo ai francescani di Borgo che lo conservarono, prima nella sacrestia poi nell’urna dove fu rinvenuta. Per evitare possibili maltrattamenti dell’icona, essi non diedero risalto alla sua presenza nell’edificio sacro.
Le ricerche recenti. Nel 2015 furono effettuate diverse prove strumentali ad alta tecnologia da parte dei laboratori romani dell’ENEA. I brani seguenti, estratti dal report finale, definiscono bene le caratteristiche della copia.
«La Sindone di Arquata è una copia in scala 1:1 della Sindone di Torino posta in contatto con la sacra reliquia nell’anno 1653, in cui la doppia impronta corporea, ad occhio nudo, non sembra realizzata tramite tecniche convenzionali di disegno o pittura».
«[…] le caratteristiche della fluorescenza della cellulosa della Sindone di Arquata sono le stesse di una cellulosa invecchiata 400 anni».
«[…] l’impronta non è stata creata tramite strinatura da bassorilievo caldo».
«L’impronta corporea sulla Sindone di Arquata è stata realizzata tramite un processo di degradazione del lino in grado di aumentare la velocità di ossidazione (invecchiamento) delle fibre di cellulosa […]; alcuni dettagli (rattoppi, sangue, lettere) sono stati invece rea­lizzati mediante pigmenti applicati al tessuto». La percezione dell’immagine umana è favorita dal «colore rosso cremisi del tessuto di seta sottostante la Sindone».
«Il contorno dell’impronta corporea (inclusi i capelli), le macchie di sangue, il disegno delle false bruciature e delle lettere della scritta sono dovute a sostanze penetrate all’interno dei fili del tessuto di lino della Sindone, suggerendo la loro probabile origine pittorica con un pigmento molto diluito che è penetrato all’interno dei fili del tessuto».
«[…] è possibile che l’artista che ha creato la Sindone di Arquata nel XVII secolo abbia di­pinto la macchia sul costato mescolando pigmento con sangue».
La tecnicità dell’esposizione non inficia l’intrinseco valore della copia: c’è il fatto storico di appartenenza comunitaria e poi, essendo la Sindone di Arquata un estratto dall’originale, una parte infinite­sima del sangue di Cristo sarebbe presente: per il credente, è motivo di profonda riflessione.

 


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