di Giorgio Tabani
«La mia è stata un’adolescenza da timido, da complessato. E ne sono davvero felice. Essere timidi serve a formare un’identità. Gli introversi raccolgono molto di più, osservano e riflettono su ogni cosa: tutto ciò che so della vita la conosco grazie al fatto che sono timido». Pupi Avati si racconta: la giovinezza, la musica, gli amori, le delusioni, i tentativi e la scoperta del cinema. L’occasione è l’intervista nell’ambito di “Costruttori di Cambiamenti. La comunità di domani parte da qui”, la due giorni (5-6 dicembre) dedicata all’innovazione digitale e sociale presso la Bottega del Terzo Settore.
Oltre 50 anni di carriera hanno trasformato Pupi Avati in uno dei maestri italiani della settima arte. Regista, scrittore e sceneggiatore, nasce nel 1938 a Bologna da una famiglia borghese e si laurea presso la Facoltà di Scienze Politiche. «Voi che siete giovani non ve li potete ricordare gli Lp, i vinili 33 giri. Le feste della Bologna anni ’50 erano una tragedia: le ragazze erano bruttissime e i pochi fiori misteriosi in questo deserto mi erano preclusi perché anch’io ero brutto; mi ricordo ancora i nomi di quelle splendide ragazze: Claudia o Gabriella, Raffaella, Alessandra e le vie in cui abitavano…».
VINCERE LA BRUTTEZZA COL JAZZ – «Brutto e pure timido, nei sabato pomeriggio a ballare a ritmi lentissimi, con le tapparelle abbassate, finivo inevitabilmente fra le braccia della più brutta, con le cosce alla Gattuso e i cespugli sotto le ascelle. Dissi basta. Dovevo trovarmi un’identità e lo feci con la musica. Per fare il jazzista non serve esser belli e così, assecondando la mia passione per la musica, imparo a suonare il clarinetto. Inizio a piacere a quel punto. Entro nella Doctor Dixie Jazz Band, un’orchestra di giovani ginecologi che girava per tutta Europa. Una sera però Nardo Giardina, il nostro leader, mi manda ad ascoltare un ragazzino…».
UCCIDERE LUCIO DALLA – «Si esibiva in via Stalingrado, in un’ex fonderia. Vado, con una certa supponenza, e vedo un tipo simpatico ma brutto, basso e peloso e modestissimo come musicista. Ce lo prendiamo con spirito paternalistico. Soffriva per l’altezza e la goffaggine e io lo aiutavo col clarinetto. Una sera all’improvviso fa un assolo, eravamo a Francoforte, e suscita entusiasmo. Ogni sera suonava meglio e mostrava una duttilità, una predisposizione, una genialità straordinarie. Io avevo passione, lui aveva talento: io ascoltavo, studiavo, mi esercitavo ma non riuscivo neppure ad avvicinare quello che lui faceva con facilità assoluta». Quando Avati capisce che non può competere, durante un tour in Spagna, cerca di buttare Lucio giù dal pinnacolo più alto della Sagrada Familia. L’aneddoto è falso (anche se il desiderio c’era stato) ma non manca mai di esser raccontato, da quando entrambi i protagonisti ne scoprono il successo fra il pubblico. «Lucio è stato uno dei pochissimi autentici poeti che ho conosciuto. In lui scrittura, musica e vita si compenetravano in un’armonia che si trova una volta nella vita».
IL PLAYBOY DELLA FINDUS – «A volte mi sembra di essere ancora quel sedicenne convinto che sarebbe diventato il più grande jazzista del mondo, ma smisi con la musica. La maggior parte delle persone svolge lavori che detesta e per cui non ha alcuna vocazione, siano essi insegnanti, impiegati o professionisti: nella mia vita, prima di trovare la mia autentica vocazione, ho fatto il rappresentante della Findus surgelati, i quattro anni peggiori della mia vita. Mi dissi: “Farò almeno il playboy!”. E così giravo, come spesso capita in questi casi, con un mio amico spigliato e intraprendente, Gigi. Vidi una sera una ragazza, capii che lei era il mio vero amore. Gigi la andò a conoscere e uscimmo alcune volte sui colli bolognesi: io non le parlai mai. Una sera Gigi mi convinse a riaccompagnarla a casa, io e lei in macchina. Non spiccicai parole, prendevo tempo, sbagliavo strada ma nulla non riuscivo, finché un lampo di genio: mi inventai che era il mio compleanno e non avevo ricevuto nulla, ottenni così un bacio. Pochi mesi dopo lei era mia moglie».
IL ’69 IN CUI TUTTO SEMBRAVA POSSIBILE – «Un giorno per essere ricevuto dal direttore di un supermercato vicino a San Domenico a Bologna mi dicono che dovrò aspettare un paio d’ore: entro in un cinematografo lì vicino e sullo schermo c’era il film che mi ha cambiato la vita, “8½” di Fellini. La sua riflessione sul cinema mi fa capire che il regista non è una sorta di vigile urbano per attori, ma molto altro. Siamo negli anni euforici della contestazione e dopo aver convinto i miei amici a vedere quel film gli dico: “Proviamoci!”. Il ’68 era così, uscivi una sera qualunque da un bar con un sogno, un’identità. Scriviamo un copione, ma nessuno si prende la briga di rispondere, se non Ennio Flaiano: “Non scrivetemi più!”».
IL NANO CHE PAGA IL CINEMA – «Il gruppo si stava sfaldando e così accettai di incontrare quello che diverrà un personaggio Ariano Nanetti. Era un nano, entrammo a casa sua e aveva una sorta di gatto ammaestrato, fu un incontro folle. Lasciò balenare, con la sua voce stridula, la possibilità di un finanziamento. Giorni dopo, disperato ma senza crederci, lo chiamo. 48 ore dopo Nanetti entrava al Bar Margherita vestito di grigio, con una cravatta d’argento. Con lui Mister X, un albino elegantissimo che diceva solo “capolavoro!”: da lui vennero 16 assegni. Notte bolognese, un nano e un albino, “capolavoro”, 160 milioni di lire sul tavolo. Nacque l’horror “Balsamus, l’uomo di Satan”. Fu un disastro, io ero totalmente inadeguato ma ero un regista».
IL SENSO DELLA VITA SU UNA COLLINA – «Cos’è la vita? Alla mia età l’ho capito. Si tratta di una collina che si sale e mentre lo si fa ognuno di noi ne agogna la cima: sarà il momento in cui saremo apprezzati, otterremo ciò che ci manca e non abbiamo avuto, colmeremo finalmente la nostra eterna infelicità. Ma poi arriva lo scollinamento e l’inversione della prospettiva: ci si guarda indietro rendendosi conto che era infinitamente meglio tutto quello che hai passato. Si sostituisce alla fascinazione per il futuro quella per il passato. Ma c’è una cosa bella di questa età, che ognuno di noi dovrebbe coltivare: la vulnerabilità. Non rinunciamo a essere vulnerabili. Quando lo siamo, riusciamo a capire il mondo, a vibrare col mondo, ci mettiamo in ascolto del tutto».
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