La necropoli “fantasma”:
il sepolcreto di Villa San Pio X,
a oltre un decennio
dal ritrovamento 

SPINETOLI - Nel luglio del 2006, durante i lavori di scavo per la costruzione di una palazzina, venne alla luce uno dei siti più estesi delle Marche, circa 1.000 metri quadrati: 80 tombe “povere”, risalenti all'età imperiale. Che ad oggi non hanno ancora trovato una collocazione espositiva
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di Marzia Vecchioni

(foto Archivio Antonio Vagnoni)

A circa 14 anni dalla scoperta della necropoli romana di Villa San Pio X di Spinetoli è difficile trovare informazioni sul pur interessante evento, online o sui social, solitamente ricchi di notizie riguardanti l’ambito locale. È un vero peccato perché oltre al sito del sepolcreto, or­mai sostituito da una palazzina di civile abitazione, rischia di perdersi anche la memoria storica di un così interessante evento. In realtà, fu realizzato, celermente, il catalogo delle tombe e dei reperti rinvenuti, con un breve com­men­to preliminare. Non fu però raggiunto l’obiettivo di creare un mu­seo della necropoli, probabilmente a causa della scarsità di risorse economiche disponibili per eventi culturali.

Area dello scavo, attualmente occupata da una palazzina di civile abitazione

Nel 2009 realizzai, assistita dal relatore, professor Gianfranco Paci dell’Università di Macerata, un lavoro sull’argomento, che costituì la mia tesi di laurea. Questo articolo ha l’obiettivo di ricordare la scoperta, per celebrare, a distanza di tanti anni, quell’evento fortunato per il nostro territorio, ponendo l’accento sugli aspetti che ritengo più interessanti e scusandomi per quelli sui quali, per ragioni di spazio, sarò costretta a sorvolare.
Nel luglio 2006, a Villa San Pio X, durante i lavori di scavo per la costruzione di una palazzina di civile abitazione, venne alla luce un’estesa necropoli romana, adiacente al­l’attuale Salaria, nell’area pianeggiante sulla sinistra orografica del Tronto.

Scheletri all’interno delle fosse. Nell’ultima foto in basso, i resti di un bambino adagiati su un tegolone

La scoperta del sepolcreto ha costituito un evento interessante, oltre che per il ritrovamento in sé (è una delle più estese necropoli romane della provincia di Ascoli e di quella di Teramo e una delle più grandi delle Marche), anche per il fatto che non si conoscevano, in zona, aree sepolcrali di così vaste dimensioni. Il comprensorio di Spinetoli era già stato luo­go di ritrovamenti archeo­logici, a testimo­nianza della continuità del popolamento della zo­na nel tempo; alcuni di essi si devono al marchese Guglielmo Allevi di Offida, che operò nella prima metà del secolo XIX anche nell’area del Fosso Fiobbo, vicino alla necropoli.
Nel sepolcreto, esteso per circa 1.000 metri quadrati, le tombe erano disposte per file parallele e tutti i corpi erano deposti in posizione supina, con il capo ad est (allegoria solare della nascita) e i piedi ad ovest (verso il tramonto, nella sua simbologia mortuaria); i corredi, poveri, erano posti ai piedi del defunto e pre­sentavano una tipica standardizzazione.

L’obolo di Caronte è stato posto nella bocca del morto

Le tombe risultavano essere, per la maggior parte, a inumazione, ma furono rinvenute anche sepolture a incinerazione. Si può ipotizzare la presenza di un sudario che avvolgeva il defunto perché le ossa di diversi scheletri erano in posizione com­posta, a differenza di strutture ossee appartenenti ad altre sepolture che apparivano “aperte”.
Il ritrovamento di un cospicuo numero di tombe fa pensare alla presenza, nelle im­mediate vicinanze, di un insediamento abitativo di discrete dimensioni, probabilmente un vicus (agglomerato rurale, un villaggio che rappresentava una delle divisioni minori della ripartizione territoriale romana); una realtà di indubbio interesse, dato che non si conoscono sulla Salaria centri di ag­gregazione di dimensioni rilevanti tra i centri di Asculum e Castrum Truentinum.

Tipologia delle tombe. Da sinistra in alto, un ustrinum (sito della combustione del defunto), fossa terragna, copertura piana (collassata), a cappuccina

Lo scavo archeologico ha portato alla luce circa 80 tombe, “a rito misto” (con sepolture a inumazione e a incinerazione) e “a disposizione estensiva” (senza sovrapposizioni nelle sepoltu­re); la conserva­zione di ampi spazi tra le fosse le rendeva identificabili in superficie, molto pro­babilmente grazie a segnacoli lignei.
Quella di Villa San Pio X era una necropoli rurale: non ci sono, quindi, resti monumentali ma tombe “povere”, di gente comune; l’assenza di prodotti di importazione ha permesso di attribuire la necropoli a un ag­glo­merato isolato e autonomo. Nelle sepolture il corredo era di­stribuito in maniera uniforme, con rari oggetti di ornamento, a testimonianza della man­canza di elementi decorativi nella vita e nelle necessità, all’interno di una società fortemente egalitaria.
La datazione presunta risale all’età imperiale e, per la presenza in alcune tombe di monete di bronzo del secolo II d. C., si colloca in un periodo temporale durante il quale ve­nivano ab­bandonate le sepolture a incinerazione per quelle a inumazione, spesso con un corredo estremamente ridotto, particolare legato, probabilmente, al progressivo impoverimento del­la popolazione (già nella Roma repubblicana, l’inumazione si sceglieva per il minor costo, mentre l’incinerazione era propria delle famiglie nobili e ricche).

Elementi del corredo (spiegazione nel testo). Nella foto in alto sono visibili tre elementi: la lucerna, l’olletta che conteneva il chiodo rituale e i chiodi a cappella di una caliga. In quelle in basso, a sinistra, una lucerna e un’olletta; a destra, l’obolo di Caronte

Per quanto riguarda la tipologia delle tombe di Villa San X, esse erano “a fossa terragna” se i corpi ve­ni­vano adagiati direttamente sulla nuda terra, talora avvolti in un sudario all’interno di una cassa o su un letto funebre lignei, con le sepolture affiancate da buche laterali per il corredo. La “copertura piana” era caratterizzata dall’uso di tegoloni sistemati in posizione orizzontale, accostati l’uno all’altro; la tomba era “a cappuccina” se la fossa era coperta da coppie di te­goloni, disposti l’uno di fronte all’altro a formare un doppio spiovente. In un caso, il de­funto era adagiato all’interno di una struttura in muratura costruita utilizzando una cassa­forma lignea. Nella prassi dell’incinerazione, veniva allestita una pira funeraria, sulla quale il cor­po era direttamente cremato dagli ustores. Al termine di questa pratica i resti venivano sepolti insieme al corredo e la fossa era riempita con la terra.
Il culto dei morti era molto sentito nella società romana e si estrinsecava, oltre che nella sepol­tura, in una serie di azioni rituali effettuate dai parenti del defunto. I riti di commiato e di com­memorazione implicavano la credenza in una vita dopo la morte ed erano accettati e compiuti da tutti gli appartenenti alla comunità, per mantenere un legame tra vivi e morti.
Le sepolture erano raggruppate in aree speciali (vere e proprie “città dei morti”) come quella di Villa San Pio X, situate all’esterno degli abitati ma nelle immediate vicinanze degli stessi, lungo le direttrici viarie più importanti (in questo caso, la Via Salaria). Le aree sepolcrali erano luoghi di grande valore so­ciale, e vi si tenevano riti e cerimonie in memoria dei defunti.
All’interno delle tombe spesso si ritrovano i corredi funerari, formati dall’insieme delle of­ferte rituali che accompagnano la sepoltura di un defunto; a volte nei sepolcri venivano collocati anche oggetti che erano stati cari ai defunti nel corso della loro vita.
Un elemento caratteristico del corredo funerario delle tombe della necropoli di Villa San Pio X è la lucerna, oggetto di uso comune nell’antichità, che ricordava la vita quotidiana ma che aveva pure un significato simbolico. Secondo l’interpretazione tradizionale la lucerna ha va­lenze apotropaiche ed escatologiche. Il lume sarebbe servito a garantire l’illuminazione della tomba, allontanando i demoni che avrebbero minacciato la quiete del defunto, e a­vreb­be “guidato” il morto nell’oscurità durante il viaggio verso l’Aldilà. Inoltre, come fonte di luce e allegoria di vita, la lucerna rappresenta l’immortalità dello spirito.
Oltre ai chiodi appartenenti alla cassa lignea o al lectus funebre, sono stati rinvenuti chiodi a cappella, tipici della suolatura delle calzature romane; il terzo tipo ha una funzione rituale. I chiodi rituali di ferro e, in un caso, di bronzo, erano posizionati vicino al corpo o, a volte, dentro ollette. Avevano sicuramente una motivazione apotropaica (in alcune necropoli, so­no stati ri­trovati chiodi in vetro, quindi senza valore funzionale) e assol­vevano alla funzione magico-rituale di impedire il ritorno del defunto dall’oltretomba.
Nella necropoli sono state rinvenute 24 paia di calzari (solo le parti basali delle calzature e i chiodi delle suole) simili alle calzature militari (le caligae), da sempre associate alla figura del soldato romano: erano scarpe legate da strisce di cuoio e con la suola formata da più strati dello stesso materiale. Sono stati recuperati chiodi a cappella dalla testa arrotondata, solita­mente usati per rinforzare la suola della scarpa. Le caligae erano dotate di molte fenditure per l’aereazione del piede e d’inverno potevano essere indossate sopra calze di lana o sui socci, le pantofole chiuse che i Romani indossavano in casa.
Nella maggior parte delle sepolture era presente una moneta, spesso in bocca al morto: era l’ “obolo di Caronte” (obulus Charontis), il traghettatore dell’Ade. Lo psicopompo traspor­ta­va i morti verso la riva della loro ultima dimora, ma solo se i defunti avevano ricevuto i rituali onori funebri e disponevano di un obolo per “pagare” il viaggio. In mancanza di ciò, l’anima del morto era costretta a errare tra le nebbie dell’Aldilà per lungo tempo. Secondo un’altra interpretazione, l’obolo sarebbe la ritualizzazione dell’antica usanza di seppellire il morto con tutti i suoi beni (simbolizzati dalla moneta).
Uno dei riti funebri era quello del pasto rituale con il defunto, “in contatto” con i vivi tramite il tubulum, un’apertura attraverso la quale erano inseriti liquidi o sangue di animali sa­cri­fi­cati. Il rito dell’offerta alimentare era talmente radicato nella consuetudine che venne co­optato dalla “nuova” religione cristiana. In stretta continuità con l’uso pagano, venne introdotto il rito del refrigerium, termine derivato da refrigerare (rinfrescare, dare sollievo; il senso letterale del termine è metaforicamente traslato nel concetto di “riposo”).
In conclusione, una speranza. Anche se in un Paese come il nostro, così ricco di testimo­nian­ze storiche, occorre avere delle priorità (e, forse, i resti della necropoli di Villa San Pio X non lo sono), è auspicabile che i ritrovamenti trovino una degna sistemazione, magari vengano esposti, insieme a mappe e a pannelli esplicativi e costituiscano un punto di riferimento interessante per chi volesse conoscere la storia del nostro territorio.


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