“Il furioso e la summa”,
Scalabroni a tu per tu con Ariosto

ASCOLI - Lo spazio libri ospita la coltissima dissertazione sull’Orlando Furioso e sul rapporto tra il poema cavalleresco e la “Summa Theologiae” di Tommaso d’Aquino
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di Federico Ameli

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori. Un chiasmo che chiunque abbia letto anche solo i primi versi dell’Orlando Furioso non può non conservare nel proprio cassetto della memoria, a maggior ragione chi all’opera del grande Ludovico Ariosto ha scelto di dedicare uno dei saggi più colti del panorama letterario locale. Parliamo di Silvio Scalabroni, che lo scorso anno ha pubblicato il suo secondo, “Il furioso e la summa. L’influenza tomista nel capolavoro ariostesco”, edito da Lìbrati. Pur avendo una formazione prettamente tecnica, infatti, il figlio dell’indimenticato partigiano William Scalabroni ha sempre nutrito degli interessi umanistici che a poco a poco, uniti alla sua una grande passione per la lettura, hanno fatto di lui un autodidatta della letteratura.

Silvio Scalabroni

A otto anni dal suo esordio letterario con il romanzo “Il migliore dei mondi possibili”, Scalabroni torna a cimentarsi nella scrittura nel tentativo di dare una risposta ad alcuni interrogativi sorti, in modo peraltro inaspettato, a seguito di un tentativo di lettura metaforica dell’opera ariostesca, esperimento già tentato in passato da critici letterari anche di comprovata fama, i quali però non erano riusciti a trovare una chiave di lettura che potesse risultare valida per tutti i 46 canti del poema. «Negli ultimi anni – racconta Scalabroni – è cresciuto il mio interesse storico, filosofico e letterario per l’età umanistico-rinascimentale, ma quando ho approcciato l’opera ero convinto di andare incontro a un piacere quasi esclusivamente estetico e non immaginavo certo che mi avrebbe coinvolto in questo modo».

«Il fatto – prosegue – è che nel corso della lettura si incontrano determinati personaggi ai quali Ariosto, con dei richiami a delle personalità di spicco del passato, attribuisce delle virtù o dei vizi di carattere morale. Uno di essi è, ad esempio, Erifile, alla quale il poeta attribuisce, rifacendosi a Petrarca, Dante e Alberto Magno, l’Avarizia. Si tratta di riferimenti che i critici che hanno prontamente colto, in quanto la volontà di Ariosto di fornire una lettura metaforica dell’opera risulta piuttosto evidente in alcuni passaggi. Tuttavia, questo tipo di interpretazione è caratterizzata da una certa intermittenza, non essendo applicabile, almeno in apparenza, a tutti i personaggi».

È stata proprio questa incongruenza di fondo a spingere Scalabroni a cercare una nuova chiave di lettura allegorica, chiave che l’autore, su suggerimento implicito dello stesso Ariosto, è andato a ricercare tra le pagine della “Summa Theologiaedi Tommaso d’Aquino, il più celebre trattato di teologia medievale che non poteva certo non trovare posto nella biblioteca di un uomo di cultura del calibro di Ludovico Ariosto. «Mentre procedevo nella lettura, continuavo a domandarmi se non ci fosse un testo dal quale poter estrapolare un’interpretazione riguardo a tali personaggi. Quando poi, nel VII canto, mi sono accorto che il poeta menzionava uno dietro l’altro i sette vizi capitali, è stato naturale andare a ricercarli nella “Summa Theologiae” di San Tommaso».

Dopo la felice intuizione della possibile influenza tomista nell’Orlando Furioso, Scalabroni inizia a condurre un’indagine che poggia su solide basi, anche dal punto di vista prettamente storico. «L’Ariosto, appena ventenne, aveva avuto un precettore agostiniano, Gregorio da Spoleto, al quale restò sempre affettuosamente e intellettualmente legato, tanto da benedirlo nella VI satira – spiega l’autore – . Sapendo che i domenicani, quale Tommaso era, seguivano la regola di Sant’Agostino, mi sono procurato lo scritto della Scolastica e ho iniziato ad analizzarlo. Fortunatamente, non ho tardato molto a trovare dei riscontri, ma ciò che ancor più mi ha convinto del fatto che fossi sulla strada giusta è stato il constatare che nel canto precedente, il VI, il poeta trattava quei peccati che nella Summa si trovavano esattamente prima di quelli capitali. In tal modo, anche rime che a una prima lettura non mi avevano minimamente insospettito, acquisivano ora il valore di suggerimenti interpretativi».

Ludovico Ariosto

Da questa considerazione di Scalabroni prendono le mosse i sei capitoli dell’opera, nei quali, oltre a dare conto dell’evoluzione del ragionamento dell’autore nel percorso di lettura delle pagine del Furioso, vengono presi in esame, tra le altre cose i diversi “suggerimenti”, lessicali, razionali e iconici, che il poeta ha disseminato lungo tutta l’opera per instradare i posteri verso una più corretta interpretazione del testo, come anche vengono tratteggiati i profili dei personaggi principali, riletti in chiave metaforica e morale, il tutto con la precisa volontà di evidenziare i tanti punti di contatto tra il poema di Ariosto e la Somma teologica di Tommaso d’Aquino.

«Dando per scontato – continua – e non senza fondamento, che l’Ariosto avesse ben presente l’opera della Scolastica che racchiudeva la completezza del sapere teologico, mio convincimento è che egli abbia voluto trasportarla all’interno del poema, ancor più che come opera religiosa, come “veicolo fluido” – come avrebbe detto Benedetto Croce – di moralizzazione. Va da sé che quindi l’Ariosto abbia subito l’influenza di Tommaso e che, di conseguenza il Furioso sia proprio intriso di questo senso morale percepibile in tutti gli episodi. La visione più prettamente cristiana, poi, la si coglie nel fatto che pur dopo tanti travagli, i “buoni” trionfano mentre i “cattivi” finiscono col subire la punizione meritata. Affinché ciò avvenga, Dio stesso, oltre che spesso citato come causa invisibile di effetti tangibili, si fa personaggio, intervenendo in prima persona in due occasioni. Così, Ariodante e Ginevra riusciranno a sposarsi, mentre Polinesso verrà ucciso da Rinaldo; Orlando salverà Olimpia che sposerà Oberto, mentre il superstizioso popolo di Ebuda verrà sterminato, e così via».

William Scalabroni, il papà di Silvio

Un’operazione critica, quella portata avanti da Scalabroni, approfondita e motivata, con uno scrupoloso lavoro di scomposizione e confronto tra le opere, che trova poi sbocco in una raccolta ordinata e di carattere “scientifico” dei dati, con elenchi, indici e tabelle con diverse proposte e tipologie di classificazione a conclusione dell’opera. 38736 versi passati in rassegna alla ricerca di parallelismi tra l’Orlando furioso e la Summa Theologiae, un intero poema letteralmente vivisezionato allo scopo cercare di completare quel percorso esegetico lasciato finora a metà. Starà al lettore poi giudicare se Scalabroni sarà riuscito o meno nell’impresa: stando alle sue parole, «tale è la ricchezza che si può rinvenire in questo giacimento di sollecitazioni morali, da farmi ritenere, come direbbe il poeta, di aver svelato appena un terzo del tutto».

Ad ogni modo, il risultato finale è senza dubbio un’opera coltissima e dal carattere spiccatamente erudito, che nonostante la forma del saggio e la natura squisitamente letteraria dell’argomento non rinuncia a proiettarsi anche nell’attualità e verso una possibile contestualizzazione del testo ariostesco nel nostro tempo, evidenziando degli aspetti del Furioso che per certi versi risultano sorprendentemente moderni. «Devo dire – ammette l’autore – che la questione morale e l’etica restano sempre istanze attuali, prova ne è il fatto che i filosofi contemporanei continuano a scriverne. In questo senso, non c’è una vera e propria eredità, ma semmai un’ulteriore testimonianza di continuità che oggi acquisisce nuove sfaccettature in ambiti specifici della nostra società: l’ecologia, la povertà, la pace, la cibernetica e tante altre questioni che non si possono comunque affrontare prescindendo dalla nostra umanità. La coscienza, per fortuna, lo impone. E a questo fa riscontro l’intento ariostesco di moralizzare i costumi e le scelte individuali, ecco perché tutti i personaggi acquistano un valore simbolico».

«A proposito di attualità – prosegue Scalabroni – il poeta più volte esalta il valore delle donne, redarguisce gli uomini che non lasciano loro spazio o le contrastano con discorsi menzogneri per continuare a tenerle sottomesse. Per quanto riguarda invece il castello di metallo in cui erano stati rinchiusi i migliori paladini per scongiurare le nozze di Ruggiero e Bradamante, quest’ultima, rifiutando la logica del potere, costringe il mago Atlante a togliere l’incanto. La superbia è pertanto disfatta dalla virtù, l’inganno e la menzogna dalla verità, cosicché il maestoso castello metallico si scioglierà come cioccolata sulla fiamma. Quando ciò accadrà, i bei giovani che erano stati rapiti, si vedranno spiacevolmente ricondotti alla realtà e torneranno mesti alle loro occupazioni, segno che l’uomo, per il piacere, rinuncerebbe anche alla libertà».

«La prigione dorata, non solo impediva l’accesso “a chi non è augello”, ma impediva anche a chi era dentro, di vedere il mondo reale, un po’ come accade nei circoli elitari o nei clan esclusivi dediti ai piaceri mondani, allorché si mostra indifferenza verso il resto del mondo sofferente -ricorda ancora Scalabroni-. Una sorta di fiera del disinteresse che si estende oggi anche alle nuove generazioni, le quali, per un fraintendimento del senso della vita e della libertà, si esaltano nel godimento dei sensi, nell’ostentazione di una vita giuliva e nella vacua esibizione conformista del piacere trasgressivo, del fare e dell’avere, attraverso i quali stringono alla gola la loro interiorità sempre più compromessa».

«Talvolta le passioni, sotto forma di pensieri dominanti, si trasformano in vere e proprie ossessioni – ribadisce-. Ciò accade quando il desiderio costringe la volontà a prendere il sopravvento sulla ragione e si verifica molto più spesso di quanto non si creda. Talvolta per una donna, e allora da un rifiuto possono nascere tragedie quali stupri e femminicidi, talvolta per un credo religioso, per cui dai travisamenti di chi interpreta le scritture nascono i fanatismi che tanto tengono oggi in apprensione l’intera civiltà. Talvolta perché il rifiuto per la propria condizione esistenziale si sfoga nella rabbia contro gli altri, alimentando un’insofferenza che a lungo andare si trasforma in un odio personale che finisce per unire frange della società in gruppi più o meno organizzati che, per superbia, invidia o semplice stupidità, si scatenano contro chi è “diverso”».

«Le forme ossessive -conclude Scalabroni- senza voler scendere in quelle riconosciute come malattie, sono svariate e multiformi, ma quello che si può in tutti questi casi affermare è che, quando un pensiero dominante ingigantisce, lo fa a detrimento della completezza della persona, che nei casi più gravi, istupidisce, diventando intellettualmente rachitica e gretta».


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