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Stefano Belà,
il pronipote del brigante
(Foto e video)

AMATRICE - Un trisavolo prima garibaldino e poi brigante. Una scelta di vita coraggiosa resa ancora più sacrificata dal sisma. L’amore per la musica popolare e per le montagne tramandato dagli avi. Il legame con le radici, le tradizioni della sua terra, più forti di tutto
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di Walter Luzi

A Santo Masso di Amatrice la strada finisce. Qui vive Stefano Belà. Cantore popolare, spirito libero, montanaro nell’anima. Con la donna che ama, e gli animali che alleva.  Affaccio sulle propaggini dell’Appenino laziale, poche ore di cammino dalle creste arrotondate dei Monti della Laga. Santo Masso. Ultima frazione di Amatrice, ma Accumoli è molto più vicina. Chi ne storpia il nome con San Tommaso o Tomasso che sia, sbaglia. Qui il patrono venerato è San Gabriele. E, comunque, i santi non c’entrano proprio. «Questa frazione, una delle quarantanove del Comune di Amatrice -spiega Stefano- l’hanno ricostruita dopo il terribile terremoto del 1703 quasi tutta su uno sperone roccioso ritenuto protetto anche dai terremoti. Un Masso Santo appunto, sul quale è rimasta in piedi una delle poche case della zona. Sarà un caso, la più antica del borgo».

Stefano Belà

IL GARIBALDINO DIVENTA UN BRIGANTE – Il nonno di suo nonno, Sabatino Ferretti (1841-1918), si era arruolato volontario con Giuseppe Garibaldi intento a costruire un’ Italia unita, ma soprattutto, o almeno questo si sperava nelle classi meno abbienti, un’Italia più giusta. I discendenti della sua famiglia saranno chiamati per questo, per sempre, quelli di Garibaldi. Ma l’Unità d’Italia nulla cambiò. Il latifondo rimase nelle mani dei nobili ricchi perché solo loro avevano i denari per pagare le tasse al neonato Regno d’Italia. Ed i poveri rimasero condannati ad essere sempre più poveri e sfruttati dai padroni, sempre più ricchi. Sabatino, forte dei suoi trascorsi militari, divenne allora un brigante in una delle tante bande di questi monti. Quando le truppe regie riuscirono ad acciuffarlo, dopo anni di inseguimenti, imboscate e scontri a fuoco in questi boschi, solo il foglio di congedo dalle campagne garibaldine che aveva con sé lo salvò dal plotone di esecuzione. Finì in carcere per molti anni senza per questo rinunciare al suo sogno di libertà e alla fede nella lotta per la giustizia sociale. Il nome della tenuta agricola scelto da Stefano Belà, ricorda l’avo garibaldino Sabatino Ferretti, e le sue gesta di Resistente ante-litteram in questi luoghi. Il Passo del Brigante.

Pasquale Ferretti, antico suonatore di ciaramella

LA MUSICA NEL SANGUE – Stefano Belà nasce ad Amatrice nell’inverno del 1986. Il papà carabiniere trasferisce la famiglia a Montefiore dell’Aso quattro anni dopo. Il piccolo Stefano soffre molto il distacco dai nonni. La nostalgia della sua casa, di nonno Sante, che chiama a squarciagola dal balcone, e degli affetti lasciati sui monti, è tanta. Piange spesso perché vuole andare a casa. Non è questa casa mia, ripete fra i sighiozzi. Nel primo tema libero a scuola racconta dei nonni, degli agnelli e dei vitelli nella stalla di Petrana. Lenisce la nostalgia solo la sua grande passione per la musica, i suoni che gli ricordano la sua primissima infanzia, la vita semplice e genuina della campagna. Musica che ha nel sangue, trasmessa dai geni anche quella, dal bisnonno Pasquale Ferretti, antico suonatore di ciaramella, dal nonno Sante, applaudito stornellatore anche lui. La musica popolare ha sempre accompagnato la vita di Stefano Belà.

LA PRIMA TAMBURELLA – Camminava a stento sulle sue gambe da piccolo e già picchiettava le mani sulla tamburella. A dieci anni lo mettono su un palcoscenico, ma lui si vergogna come un ladro, e scappa nel finale quando c’è da scattare la foto ricordo. Lui infatti in quella foto di gruppo non c’è. Ma la tiene ancora appesa lo stesso, ad una parete della spoglia cucina, nella sua casetta di legno. E’ stato un giorno da ricordare. La mamma Aurora con la sorella minore Alessia aprono un negozio di pasta fresca. Stefano invece abbandona gli studi dopo le medie e un anno di Istituto d’Arte a Fermo. Ottiene anche bei voti, ma la voglia di studiare e frequentare è pari a zero. Lavora due anni a Montemonaco come garzone nelle consegne di pane e come mietitore stagionale. Ma torna nell’Amatriciano ogni volta che può. In tutti i fine settimana, a Pasqua, a Natale, e in tutte le feste comandate. Per stare con nonno Sante e nonna Adele, per aiutarli nei lavori legati alla pastorizia, all’allevamento degli animali, alle piccole coltivazioni. Per salutare tutta la vasta parentela sparsa fra le tante frazioni di Amatrice fino a Trisungo. E fare bisboccia con la compagnia, ancora più vasta, dei tanti amici.

L’OSTERIA DEL MERLO – Con la mamma e la sorella rilevano la gestione dell’Osteria del Merlo a Moresco, che si chiama così perché sta proprio sotto alla omonima, svettante torre. Il locale diventerà uno dei centri di aggregazione più noti e apprezzati della regione, crocevia di musicanti e artisti che qui mettono in scena i loro spettacoli durante le cene. Ospita anche due edizioni del festival di musica popolare.

LI FELLACCIA’ – Stefano è già un personaggio in questo settore con il duo Li Fellaccià nato nel 2007. Lui è la voce e tamburello, Simone Belleggia invece suona l’organetto. Una coppia che spopola alle feste e alle sagre. «Ci siamo divertiti tanto insieme -ricorda Stefano- ed abbiamo fatto divertire, tanto, tanta gente. Una cosa che ci è sempre riuscita bene devo dire, e che ci ha dato tante soddisfazioni». Nonostante la “concorrenza” in questo settore non manchi. Li Mazzamurelli de li Sibillini, Ortensia, Lu Trainanà, Li Randerchitte, Gli Storti, La Cucuma, fra gli altri gruppi di musica popolare regionale, solo per ricordarne alcuni fra i più conosciuti di una variegata galassia. Stefano ha voluto essere sempre un cane sciolto, libero di andare dove preferiva e fare ciò che voleva. Uno stile di vita che non lo abbandonerà mai. Li Fellaccià incidono cinque cd di musica popolare con tutto il repertorio classico della tradizione musicale marchigiana. Loro lo condiscono solo di contagiosa simpatia e testi ammiccanti e divertentissimi. Una volta a un festival folk a Recanati si è preso una polmonite a suonare per la strada un giorno intero. In gennaio e in canottiera. «Fumavo come un petardo e non so più quanto vino ci siamo bevuti quel giorno, aspettando di esibirci sul palcoscenico del teatro in serata. Ci siamo arrivati belli brilli, ma invece di dieci minuti abbiamo suonato un’ora e mezzo con il pubblico in delirio, in piedi, a spellarsi le mani per gli applausi. Che giornata!».

Sante Ferretti (a sinistra con la tamburella)

IL RITORNO – Nel 2013 muore nonno Sante, il papà di sua madre. Un punto di riferimento fondamentale per lui. Un sorta di padre a distanza che gli ha trasmesso tutte le passioni e con il quale scoprirà, strada facendo, di avere altri parallelismi. Anche lui infatti se n’era tornato da Roma al suo paese perché, diceva, l’aria di Roma gli faceva male. Anche lui convinse con l’amore una “forestiera”, una ragazza romana, una cittadina, a seguirlo per vivere nell’Amatriciano. Sente che deve tornare lassù anche lui. Per sempre. A custodire oltre al ricordo dell’affetto più caro, anche le poche cose che nonno Sante gli aveva lasciato. Li Fellaccià si sciolgono. Stefano ritorna ad Amatrice nel settembre del 2013. «Quando mi metto una cosa in testa la faccio continua Stefano- sono un capoccione. Volevo stare qui. Anche se d’estate, a Petrana, dormivo in una stanzetta attigua alla stalla. Poi d’inverno venivo a stare da nonna ad Amatrice. Sempre da poverelli insomma. Ma felici». Un esempio di tenacia, un modello di costanza, coerenza e caparbietà al quale comincia ad ispirarsi anche per la nipotina Emily. «Ho cominciato con due pecore, facevo pratica e mi ingegnavo a fare tutte le cose che sapevo fare. Per i ristoranti confezionavo anche marmellate e olive. E con i guadagni ci compravo altre pecore».

Stefano e Fabrizia

L’INCONTRO CON FABRIZIA – Dieci mesi prima del terremoto, proprio all’Osteria del Merlo, dove la mamma lo ha invitato a suonare per una comitiva abruzzese, conosce Fabrizia, la sua futura compagna di vita. E di avventura agro-pastorale nell’Amatriciano, con rinnovato e condiviso entusiasmo. Adesso di pecore Stefano ne ha più di cento. Fabrizia è nata e cresciuta nel centro di Teramo, una città. E’ completamente digiuna della materia, ma impara presto a mungere le vacche ed accudire i cavalli. Si trasferiscono da Amatrice in una casa di Santo Masso, più vicini a stalle e pascoli. Risistemano con le loro mani una vecchia casa. Stefano infatti ha fatto mille mestieri, e se ne intende anche di muratura. Con Fabrizia ci si stabiliscono, finalmente, il diciannove agosto del 2016. Un trasloco che salva loro la vita. «Fossimo rimasti qualche altro giorno ad Amatrice saremmo morti anche noi. Come nonna, come zia, come tanti amici che non riuscirei a contarli tutti per quanti ne erano». Alla fine Amatrice conterà 243 morti sotto le macerie. Solo qualche ora dopo la fine della grande festa di inaugurazione della nuova casa di Stefano e Fabrizia. Quaranta amici sulla grande tavolata apparecchiata in piazza, quella notte, a Santo Masso. Fino alle due dura la festa. Con l’organetto di Stefano a scandire i tempi dei brindisi e delle risate. La nonna che accetta volentieri un passaggio da due ragazzi di Illica per farsi riaccompagnare a casa. Dove la morte sta aspettando anche lei.

LUCI E OMBRE DEL DOPO TERREMOTO – «Non siamo rimasti proprio del tutto lucidi dopo -racconta ancora Stefano- ma abbiamo continuato a lottare, giorno dopo giorno. Abbiamo dovuto vendere le pecore, e quello è stato davvero un altro brutto colpo. Svaniva il mio sogno, il mio progetto. Ma le bestie in quelle stalle di emergenza tirate su in fretta nell’immediato dopo-sisma continuavano ad ammalarsi e a morire. Una dopo l’altra. I tunnel non sono fatti per la montagna. Se ci fossero stati orsi polari anziché pecore lì dentro, sarebbero morti lo stesso di polmonite. Sempre bagnati e ammassati. Le pecore le hanno uccise la condensa che si formava continuamente sul soffitto. Due centimetri di lamiera plasticata fra cento pecore che respirano all’interno, e meno diciotto gradi all’esterno, non possono bastare. Ma non è solo per la perdita economica che mi rammarico, ma per la sconfitta di uno stile di vita che io avevo abbracciato completamente». L’allevatore che è in lui però è andato avanti: «Ora ho mucche e cavalli spiega con orgoglio- ma anche qui ci distinguiamo. Mi sono fatto arrivare da Bolzano delle brune alpine che da noi erano praticamente scomparse. Poi ho delle Chianine bianche, e diciotto cavalli maremmani da tiro pesante rapido, bestie da undici quintali. Tutti al pascolo libero, allo stato brado». Come lui.

IL CONTAINER – Da agosto 2016 ci avevano annunciato l’arrivo di un container per dicembre. Hanno fatto un po’ di ritardo. L’hanno consegnato giusto in occasione del primo anniversario, a fine agosto dell’anno dopo. Non potevo permettermi di aspettare ancora sotto una tenda. Mi sono organizzato costruendomi una casetta qui, vicino agli animali. Anche in una roulotte io non mi ci rigiro proprio fisicamente con la mia stazza di centotrenta chili. E poi ad Amatrice mancava un punto di ritrovo. L’ho creato io, quassù. Dentro la baracca mia. Nel punto più lontano e scomodo da raggiungere. Ma ci vengono tutti volentieri. Camino acceso, il tavolo lungo per poter starci in tanti. L’organetto e il tamburello appesi alle pareti pronti alla bisogna. Ne aveva tredici di organetti, anche di valore storico, nella sua casa terremotata. Mai più ritrovati, tranne questo. La musica popolare, un fuoco mai spento dentro di lui. «Ora suono molto meno rispetto al passato, quando la musica mi ha aiutato a resistere nei momenti di nostalgia e malinconia. Ora qui sono felice».

I CUSTODI DELLA MONTAGNA – «Sono nemico della troppa tecnologia. Perchè se ti aiuta va bene. Ma se ti istupidisce allora va male -dice Stefano con una saggezza inusuale per un trentaquattrenne- i social li uso poco perché ci vedo tanta freddezza, e poi ci mancava anche questo virus a mettere altra distanza fra le persone. Non è bello. Senza abbracci, senza collaborazione, senza vicinanza, senza fiducia nel Prossimo soprattutto, la vita è più difficile per tutti». Il rapporto conflittuale con gli escursionisti improvvisati della domenica. «Io li chiamo la tribù degli “Anvedi”. Arrivano con le loro scarpette colorate da tennis o le loro ciabatte infradito e ne sanno sempre più di te. Me raccomanno ogni volta: la monnezza non la lasciate in giro. Stai tranquillo, noi semo bravi. E infatti la chiudono in simpatici sacchetti di plastica e li buttano dove capita. Spesso li ritrovo impigliati nei rami degli alberi».

AMORE E RISPETTO PER LA NATURA – «Noi allevatori siamo i veri custodi della montagna -spiega sempre Stefano- se non portassimo le bestie a pascolare i prati si infesterebbero di rovi, i sentieri sparirebbero sotto la vegetazione di ginepri e rosa canina. Per quelli come me, che resistono nonostante tutto, non chiedo una medaglia. Basterebbe non essere perseguitati. I finanziamenti per la ricostruzione finiranno con la fine di quest’anno. Il tempo stringe, ma i tempi della burocrazia invece si allungano sempre di più. In Trentino gli enti locali danno incentivi a chi apre stalle nei paesi. Qui invece è vietato. Nei centri abitati i vigili ti fanno la multa pure se il tuo gallo canta troppo presto la mattina».  Accarezza Bucefalo, il maremmano da riproduzione di cui va fiero. Lo ha chiamato così, come il cavallo di Alessandro Magno. «Io ci ho anche provato a staccarmi da qui -confessa- avevo anche trovato il posto, dalle parti di Monsampietro Morico, dove transumare con le pecore. Così d’inverno stavamo giù e d’estate ce ne tornavamo quassù. Non ce l’ho fatta a resistere lontano da qui. So fatto cuscì. Che devo fa». Al cuore non si comanda. Lo cantava già anni fa nelle strofe di in uno dei suoi tanti applauditi successi in rima. «… sai che vi dico, io sò soddisfatto, sono contento di esser matto…  sono contento e per fortuna che lo matto non se cura…».

 

 


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