di Piersandra Dragoni
Gli analisti parlano di città-laboratorio del futuro nelle quali vengono sperimentati e perfezionati modelli sociali ed economici più efficienti e più efficaci nel perseguimento del bene comune. Ma la progettazione di modelli di cd. welfare municipale non può prescindere dal considerare anche la cultura come elemento decisivo di crescita individuale e collettiva: cultura che non è elemento di mero decoro o fruizione ma è funzione determinante per lo sviluppo socio-economico e affianca ai luoghi del fare i luoghi del sapere.
Ne abbiamo parlato con Stefano Papetti, docente di storia dell’arte, docente di museologia e critica d’arte, consulente scientifico nel settore dei beni culturali e dei musei nonchè curatore scientifico di collezioni artistiche fra le quali quelle comunali di Ascoli Piceno.
Quanto conta la cultura per la crescita di una comunità?
«Oramai anche le pietre hanno compreso che la cultura non è superflua, ma concorre alla formazione morale e psicologica dell’individuo: sebbene ripetuta spesso a sproposito, l’affermazione di Dostojevskj che la bellezza salverà il mondo è entrata a far parte dell’opinione collettiva, accreditando l’operato di quanti si prodigano per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale. Poi non si deve dimenticare che per l’Italia, che detiene la fetta più cospicua del patrimonio culturale mondiale, essa rappresenta anche un volano economico non trascurabile: al contrario di quanto nel passato hanno affermato alcuni politici, con la cultura si mangia e si può contribuire positivamente al bilancio nazionale.»
Inoltre è un fattore che concorre a rendere il territorio competitivo e attrattivo…
«Infatti la cultura intesa in tutte le sue espressioni rappresenta un elemento fondamentale per la crescita dell’attrattiva turistica di un territorio: ne abbiamo esempi che sono stati studiati da economisti di fama internazionale, come testimonia il caso di Matera che nell’arco di quaranta anni ha saputo valorizzare quanto era stato ritenuto fattore degradante e pericoloso, tanto dal punto di vista sociale che da quello sanitario. I Sassi opportunamente restaurati e raccontati non sono più uno sconcio ma una grande attrattiva per il turismo internazionale.»
Quindi possiamo parlare di vie culturali allo sviluppo e di beni culturali – storici, archeologici, artistici, monumentali, architettonici, ecc… – non solo strumenti per la valorizzazione del territorio ma anche strumenti per la crescita economico-sociale?
«Certo. Beni culturali e paesaggio possono rappresentare per l’Italia una attrattiva capace di portare un flusso turistico estremamente rilevante: lo dimostra il periodo di fermo imposto dalla pandemia che ha ridotto allo stremo l’economia di città d’arte come Firenze, Venezia, Roma e Napoli. Musei chiusi, teatri chiusi, alberghi chiusi, ristoranti chiusi, negozi di souvenir chiusi e via dicendo: molti addetti ai lavori disoccupati, stagionali senza più prospettive di assunzione, artisti di varia levatura impossibilitati a svolgere il loro lavoro e la beffa di ristori che suonano piuttosto come elemosina. Bisogna fare in modo che il mondo della cultura non sia il più penalizzato dall’emergenza sanitaria: ne va dell’economia dell’intera nazione e dell’immagine dell’Italia all’estero.»
A proposito di pandemia: ci ha insegnato modi diversi e ulteriori di fare e proporre cultura?
«Per molti mesi la pandemia si è manifestata attraverso la sospensione delle attività culturali, poi soprattutto i musei, compresi i Musei Civici di Ascoli, hanno creato dei format multimediali che hanno consentito di partecipare a visite virtuali, incontri di studio, conferenze che attraverso i social hanno mantenuto vivo il contatto con il mondo esterno. Dopo molti mesi, però, questa strada finisce per essere ripetitiva perchè tutti gli appassionati si rendono conto che una visita virtuale, per quanto ben organizzata, non restituisce l’emozione della visione diretta e di conseguenza si sta creando una certa disaffezione. Durante le poche giornate di apertura permesse a febbraio abbiamo dovuto replicare più volte le iniziative in presenza per soddisfare tutte le prenotazioni ricevute settimanalmente: le persone sono stanche di stare attaccate allo schermo di un computer!»
Ascoli Piceno è candidata a essere Capitale della Cultura 2024: su cosa possiamo e dobbiamo puntare per ottenere questo prestigioso riconoscimento?
«Ascoli può contare su uno straordinario centro storico e su una tradizione che non è stata improvvisata in vista della candidatura: da sempre la città ospita qualificate stagioni liriche, musicali e teatrali; da almeno venti anni organizza mostre di grande risonanza internazionale; ha spazi adeguati per organizzare eventi di richiamo; ha istituzioni come lo Spontini che operano da tempo per diffondere la pratica musicale; è sede di vari corsi universitari…
Tutto questo però va raccontato all’esterno coinvolgendo nello story telling anche l’intero territorio piceno, non soltanto con il suo meraviglioso paesaggio e le bellezze artistiche ma anche con le tradizioni artigianali e le eccellenze enogastronomiche. Occorre una progettualità a 360 gradi che non deve escludere nessuno, ma essere condivisa da tutti segnalando anche ciò che non va, le piccole e grandi criticità che si intendono colmare con un progetto culturale di grande respiro.»
Com’è il Piceno che vorrebbe?
«Il Piceno che vorrei è ciò che in parte è già: un territorio bellissimo, un paesaggio che cambia nel giro di pochi chilometri, un libro di storia dell’arte da percorrere a piedi passeggiando lentamente per le rue di Ascoli o per le ripide strade di Force e di tante altre località segrete, dalle quali si godono vedute mozzafiato dalle montagne al mare. Tutto quello che già c’è lo vorrei però servito da infrastrutture adeguate e moderne, connesso con il resto del mondo e soprattutto più amato dai suoi stessi abitanti che spesso non si rendono conto della bellezza dei luoghi in cui vivono. Vorrei un Piceno più aperto al resto del mondo e più consapevole della propria storia che si nutre di arte e di bellezza, ma soprattutto lo vorrei sempre orgoglioso e mai rinunciatario.»
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