I mitici Lupi. Qui siamo nel 1967. Da sinistra: Claudio Bachetti, Roberto Carradori, Franco Chelli, Bruno Chelli, Rolando Carradori e Alberto Farina
di Luca Capponi
«Venivamo da un mondo grigio, monotono, sonnacchioso, che di colpo divenne a colori e pieno di energia come un’ondata travolgente, una scoperta continua; il beat ci sconvolse la vita, fu una rivoluzione sotto tutti gli aspetti. Eravamo ragazzini a cui piaceva stare insieme, imparammo a suonare suonando, avevamo voce e orecchio, durante una serata sold out al Supercinema il presentatore ci ribattezzò i Lupi traducendo in italiano il nome che avevamo scelto, cioè Wolves. Il pubblico cominciò a urlare il nuovo appellativo per chiamare il bis. Da lì la nostra vita cambiò».
Uno scatto a colori. Da notare il nome della band in inglese
Se a distanza di oltre 50 anni in tantissimi si ricordano con affetto e un pizzico di nostalgia dei Lupi, nome di culto della musica picena (e non solo), un motivo dovrà pur esserci. Eppure oggi, forse con troppa modestia, nemmeno Rolando Carradori riesce a spiegarselo bene. Di quella storica formazione, nata ad Ascoli a metà anni sessanta, era il bassista. A condividere con lui il palco, il fratello Roberto (chitarra), gli altri due fratelli Bruno (chitarra) e Franco Chelli (voce), mentre alla batteria si alternavano, tra gli altri, Carlo Cicconi e Alberto Farina, così come all’organo Claudio Bachetti a cui poi subentrò Maurizio De Angelis.
«C’erano tantissime band, il beat fu un ciclone, stava nascendo una scena musicale in città, non eravamo gli unici -continua-. Eppure in qualche modo riuscimmo a spiccare, vuoi appunto per le voci, vuoi per il modo di vestire, vuoi per l’amalgama che avevamo, ma veniva sempre tanta gente ad ascoltarci, e le richieste erano molte. Noi però avevamo solo bisogno di suonare, eravamo contenti di ciò che avevamo qui, era la nostra dimensione ideale, ancora oggi mi meraviglio che a distanza di tanto tempo ancora ci si ricordi di noi. Forse è vero, alla base un po’ di talento c’era…».
E come dargli torto. Ma andiamo con ordine. Perché in una storia durata circa 6 anni e dal ritmo così intenso, con in mezzo centinaia di live, collaborazioni con nomi altisonanti come Pooh, Pfm e Banco del Mutuo Soccorso, ospitate in radio (tra cui quella con Arbore e Boncompagni nella trasmissione “Gli amici della domenica” ), occorre ripartire dall’inizio. I Lupi erano delle vere star, forse l’unica vera mitica band che nel tempo si è lasciata ricordare andando a imprimere il suo nome nella storia delle cento torri.
«Neanche mi ricordo come ci siamo conosciuti, eravamo uniti dalla passione per la musica, in questo nuovo ambiente musicale ci si conosceva tutti. -continua Carradori, classe 1951-. Ci siamo formati prestissimo, in pratica abbiamo imparato a suonare sul campo, la migliore scuola in assoluto. La mia folgorazione avvenne qualche anno prima del 1966, quando ascoltai “Be my baby” delle Ronettes, mi fece letteralmente impazzire, eravamo abituati a cantanti come Claudio Villa, mentre il primo gruppo furono gli Shadows, quelli di “Apache”. Un altro disco che mi colpì molto fu “Pet Sounds” dei Beach Boys. La scuola? Anche i professori ci conoscevano e ci volevano bene, quindi quando non potevamo andarci per via dei concerti…venivamo “perdonati”».
«All’inizio ci arrangiammo, soprattutto con gli strumenti, che rappresentavano un problema enorme -prosegue-. Costavano un occhio della testa rapportati al potere di acquisto; con uno stipendio di 120.000 lire nessuno poteva spenderne 300.000 per una Fender. Solo dopo circa due anni, coi primi guadagni, abbiamo comprato strumenti nuovi; eravamo già conosciuti e suonavamo parecchio, i primi soldi li utilizzammo così. Un altro esempio: alla fine degli anni ’60 comprai la mia prima 500 nuova, un’auto che all’epoca tutti i ragazzi volevano, e la pagai 495.000 lire. Un mese dopo comprai una chitarra Gibson dall’America, la pagai 615.000 lire, più della macchina, c’erano dei dazi doganali assurdi».
«Le prime prove le facevam0 sotto casa di Bruno e Franco, in un piccolo club in via Mercantini, poi sotto casa mia in uno spazio più grande a Porta Maggiore -ricorda ancora Carradori-. All’inizio suonavamo soprattutto musica beat, Beatles, Rolling Stones, le cover di successo di Equipe 84 e Rokes, poi arrivò l’hard rock di Led Zeppelin e Deep Purple. Più diventavamo bravi più riuscivamo ad ampliare il repertorio anche coi pezzi più difficili. Allora non era come oggi dove basta digitare per trovare ciò che si cerca, sia per gli spartiti che per i testi, per fortuna c’era mio fratello che aveva questa dote, riusciva a decifrare le parti di tutti ad orecchio. Per il resto partivamo da dischi, audiocassette o da quello che ascoltavamo in radio (dove la musica era poca) o in tv».
Tra live e una popolarità crescente, il gruppo decide anche dotarsi di un manager che ne gestisca i molteplici impegni. Prima l’ascolano Peppe Volponi, poi dal 1969 ecco Mimì Di Carlo, che fa base nella vicina Giulianova.
«L’abbigliamento era un’altra caratteristica che ci distingueva, curavamo molto il look -va avanti il musicista-. Mia madre ci comprava i vestiti ad Ascoli, da Di Sabatino, ma non li mettevamo mai perché non potevamo presentarci sul palco vestiti da ragionieri. Cominciammo quindi a frequentare il mercato di via Sannio, a Roma, andavano tutti lì. Ogni volta che dovevamo comprarci qualcosa prendevamo l’auto e ci dirigevamo verso la Capitale. C’erano le cose più strane, giacche con spallette e pantaloni scampanati, broccati, maxi cappotti, tenute sgargianti abbinate ai capelli lunghi fino alle spalle; alla fine ci facemmo prendere la mano e vestivamo così anche nella vita “normale” tanto che mia madre ci disse: “Da Di Sabatino non ci vado più”».
«L’esperienza coi Lupi è andata avanti fino al 1971/72, per la media del periodo era tantissimo -spiega ancora Carradori-. D’altronde non litigavamo mai, eravamo contenti, avevamo il nostro successo in zona e ci andava bene così. Decidemmo dunque soprattutto per stanchezza mentale, volevamo nuove esperienze, stavamo diventando troppo abitudinari. Io e mio fratello, dopo avere suonato per anni con Marco Renzi entrammo nel circuito romano della Rca, collaborando con gente come Gigi Proietti e Jimmy Fontana nell’ondata revival degli anni ’80».
Prima di un live al Kontiki di San Benedetto
Il nome dei Lupi, però, nessuno se lo è mai dimenticato.
«Negli anni ’90 ci furono diverse reunion, sempre di grande successo -rammenta il Nostro-. Ricordo una serata al Circolo Cittadino intitolata “Balla coi lupi”, con tutti quei ragazzi dell’epoca che si ritrovarono tornando da tutta Italia per rimembrare i bei tempi, suonammo come ospiti d’onore, un pienone. Stessa cosa per uno spettacolo al Cinema Piceno organizzato da Tonino Simonetti, doveva essere una tantum, invece andammo avanti per qualche anno. Avevamo davvero lasciato un bel ricordo».
«Attualmente non so se sia peggio o meglio per chi fa musica, di sicuro è più facile ma non c’è l’atmosfera di allora, quella è irripetibile, non voglio essere retorico ma è così -puntualizza-. Adesso è tutto più semplice, prima era una “caccia” continua anche solo per reperire musica da ascoltare. Ma noi eravamo felici così, era tutto perfetto, anche sui palchi dove abbiamo suonato era sempre tutto organizzato a puntino. Nella mia vita ho girato l’Italia in lungo ed in largo facendo esperienze magnifiche».
Ed oggi che di tempo ne è passato, e tanto, inevitabile si prospetta qualche bilancio anche a livello umano. E quando la musica è vita, tutto inevitabilmente si confonde.
«Mio fratello Roberto è scomparso lo scorso anno, è stata dura, ha lasciato un vuoto incolmabile dopo una vita passata insieme -spiega-. Mi piace ricordare quando insieme a Gino Cordone fondò Radio Blu a metà degli anni ’70, emittente che ebbe un grandissimo successo. Ci lavorai anche io e fu una grande esperienza».
«Oggi dei Lupi siamo rimasti in tre, io, Bruno e Maurizio, ci sentiamo spesso e ogni tanto ci vediamo -conclude Rolando Carradori-. L’ultima volta ho detto a Bruno: “Teniamoci forte siamo rimasti solo noi”. Ma sono tante le persone che ricordo con affetto e che ho conosciuto negli anni: dal grande Proietti, persona unica e umile, talento straordinario con cui siamo rimasti per tre anni, fino a Ivan Graziani, un ragazzo bravissimo che ebbe il meritato successo. Un giorno ci invitò nella sua casa di Novafeltria, a pranzo ci raccontò di alcuni suoi fastidi, credeva fosse l’ulcera, e invece tempo dopo capimmo che non era così. La sua fu una grande perdita per tutti».
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