di Walter Luzi
Umberto Galimberti nella stanza di Holden. Il grande filosofo lombardo è stato ospite ad Ascoli della libreria Rinascita e della onlus Pagefha al teatro Filarmonici, nella stessa giornata a distanza di pochi minuti. Doppio soldout. Doppio successo.
Nella storica libreria di Piazza Roma, «la più bella del mondo secondo me», testimonia lusingando, le sedie non sono bastate. Al Filarmonici tutti i duecentottanta posti disponibili erano andati esauriti in pochissimi giorni da tempo. La caccia, tardiva e infruttuosa, al prezioso biglietto invito ha lasciato fuori tanti. Questo nonostante il tasso di umidità tropicale di un sabato d’estate invitasse più alle spiagge, che a stare a sentire le reprimende, sempre sagge e illuminanti, ma, per molti presenti direttamente coinvolti, anche spietate e provocatorie, di un filosofo.
Ma Umberto Galimberti ci ha abituato alle sue conferenze di ampio respiro. Alla sua preparazione e alla sua dialettica che rapisce. Stare a sentirlo accelera la corsa delle lancette dell’orologio, nonostante la presunta pesantezza delle materie trattate. Un’ora e mezza filata di monologo appassionato attraverso la filosofia, la psicologia, la sociologia e la storia universale di tre millenni, ti arricchisce.
Perché ci aiuta a scoprire le nostre miserie morali, le nostre meschine carenze e i nostri errori quotidiani, la nostra moderna superficialità piena di tutto che genera mostri pieni di vuoti, e, a volte, anche drammi. Perché i temi trattati sono sentiti. Felicità e sentimenti, affettività e sessualità, adolescenza e psicologia dell’età evolutiva, istruzione ed educazione. E gli spettatori sono tutti direttamente interessati. Insegnanti, educatori, genitori. Toccati nel vivo della loro funzione, fondamenta di una società virtuosa ormai quasi completamente disgregate. Nel primo appuntamento ascolano ci si sforza tutti, a stento, di non toccare il tema del convegno sui giovani e i loro disagi e trattato di lì a poco. Si parla brevemente della felicità, che ciascuno di noi insegue affannosamente. Della “buona riuscita del tuo demone” dai tempi di Aristotele in poi. Scoprire chi sei insomma, per diventare ciò che sei. E poi l’importanza del “pensiero magico” la cui potenza può arrivare a far bene, in qualche caso, persino alla salute fisica.
Inevitabile per il professore il passaggio in Piazza del Popolo, che conosce bene, in compagnia del coordinatore della Pagefha, Fernando Spalvieri, verso il bellissimo teatro Filarmonici già gremito in ogni ordine di posti.
Rituali i saluti degli amministratori, portati dal sindaco Marco Fioravanti e dall’assessore regionale Guido Castelli. Sentite le brevi relazioni degli operatori Pagefha sul campo, Marcella Perongini e il direttore, Mirko Loreti, sulle tante iniziative della onlus. A cominciare della stanza di Holden, un centro polivalente di aggregazione per giovani e le loro famiglie, a rischio socio-ambientale, suddivisa in più aree. Poi tocca a lui. Che sottolinea l’importanza di ambienti come questo, visto che le scuole, purtroppo, le chiudono all’una. L’esigenza di spazi aggregativi sempre aperti per i giovani che non siano solo la discoteca dove sballarsi, e il bar dove ubriacarsi.
Il tema dell’incontro è infatti quello dell’adolescenza. I rischi di un’età delicata, le ansie di una generazione a cui il sistema, e noi tutti in fondo, abbiamo precluso il futuro. La base di tutto il pensiero occidentale, antico e moderno, venuto meno. Lo scopo, il perché della vita, che oggi manca. Il futuro che è il loro, non il nostro, che non li attira, non è più lì ad aspettarli. Che mette solo angoscia, che spaventa. Droga e alcol sono gli anestetici lungo la via aperta verso la depressione e il nichilismo.
Galimberti affonda il dito nella piaga aperta: «Dobbiamo impegnarci di più ad ascoltare i giovani. Senza mai dire “però”. Smettiamo di parlare dei “miei tempi”. Non sono i loro tempi. Smettiamo di fare regali al posto delle parole mancate. Di uccidere il loro desiderio, che è la molla della vita. Di ferirne l’affettività, quando, in loro presenza, insultiamo la loro maestra. Perché ci interessa più la loro promozione della loro educazione. Sennò facciamo ricorso al Tar. Smettiamo di essere amici, fans, sindacalisti dei nostri figli. Non è una bella cosa. Di risparmiare loro il dolore, il sacrificio. L’idea della sofferenza, del lutto, della morte».
Parole che sono schiaffi ad una genitorialità mancata, ad una educazione malata. Concetti amari e sacrosanti, che dovrebbero far riflettere.
Ma Galimberti ne ha per tutti: «La scuola, con troppi computer e troppi pochi libri, nel migliore dei casi istruisce, ma non educa. Gli insegnanti, troppo spesso, non riescono ad aprire il cuore prima della mente ai loro allievi. Non sanno individuarne l’intelligenza, che non è, badate, solo quella logico-matematica, soprattutto se sei costretto ad avere classi di trenta ragazzi. La cattedra deve diventare per gli insegnanti come un palcoscenico. Devono saper sedurre con la cultura attraverso la modalità con cui la presentano».
Il professor Galimberti è un fiume in piena. Scuote, sconcerta, ma ha ragione. Anche quando le verità sono scomode per molti. Gli applausi si susseguono. «E poi se non hai empatia, se non sei capace di partecipazione emotiva non puoi, non devi, fare l’insegnante. Ma è di ruolo. E allora? Significa che ti pago poco, ma per tutta la vita, per un lavoro che non sei in grado di fare bene. Parli ogni giorno a giovani in età evolutiva senza sapere nulla di psicologia nell’età evolutiva. Perfetto. L’insegnamento non è un posto di lavoro, ma una missione educativa. Non serve a dispensare nozioni ma a far diventare uomini». Si esce scossi. Peccato per gli assenti.
Fuori impazza la movida. Frotte di giovani fuori dai bar con i calici di prosecco e telefonini sempre in mano. Digitano faccine e sigle abbreviate. Per fare prima. Nuove incisioni rupestri di moderni cavernicoli, direbbe il professore.
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