Il lavoro nero emerge come fenomeno preoccupante dai rilievi delle associazioni e delle parti sociali nelle Marche
di Giuseppe Di Marco
Lavoro nero, sfruttamento, caporalato, minacce, barriere linguistiche e culturali radicate nelle istituzioni e nel mondo dell’impiego: di questo, o almeno anche di questo, si dovrebbe parlare quando ci si riempie la bocca del “modello Marche“, a prescindere dal colore politico di chi usa la retorica per nascondere la realtà.
Una realtà che è emersa in tutta la sua gravità nel convegno tenutosi questa mattina per volontà di Cisl, associazione Anolf e della onlus On The Road, i cui referenti hanno illustrato le principali problematiche dell’universo lavorativo marchigiano e Piceno, pur facendo scarso ricorso ai numeri.
L’attenzione è stata puntata, soprattutto, sulla consapevolezza detenuta dal lavoratore straniero – spesso migrante – sulla mancanza di tutele sul luogo di lavoro. «Nel mio settore è impiegato il 35-40% dei lavoratori stranieri – afferma Tonino Passaretti, di Cisl Costruzioni – e in quest’ambito c’è tanto lavoro nero, ma soprattutto “grigio”: parlo dell’elusione contrattuale, il fenomeno con cui i lavoratori vengono dichiarati, ma viene loro somministrato un contratto “conveniente” al datore, che quindi affida loro ogni tipo di mansione. Dalle nostre visite, inoltre, è emersa una grande approssimazione nella costruzione dei cantieri, che quindi mettono a repentaglio l’incolumità degli operai».
Una delle testimonianze più eloquenti è stata offerta da Andrea Dominici, membro della onlus On The Road, che si è concentrato sul settore agricolo, che storicamente chiama a sè una gran quantità di braccianti senza chiedere specifiche competenze: «Con la nostra unità mobile andiamo alla ricerca di possibili “vittime” del lavoro nero – racconta Dominici – cercandoli soprattutto nelle aree di aggregazione, come piazze o luoghi di culto. Una volta stabilito un contatto, cerchiamo di far emergere le problematiche allo sportello. Ne è venuta fuori, nel tempo, un’immagine del “caporale” ben distante dalle rappresentazioni caricaturali a cui siamo abituati: questa figura è quella di un connazionale, percepito come un benefattore, che spesso trova anche l’alloggio agli altri. Una persona di cui fidarsi, da cui la naturale diffidenza che il lavoratore straniero ha nel parlare con noi: ha paura di perdere quel poco che ha».
L’attività sul campo è stata corroborata da una serie di laboratori portati avanti nei Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria), nei quali sono stati ascoltati più di 50 lavoratori. «Nel Piceno e San Benedetto c’è ancora tanto lavoro da fare – continua Dominici – abbiamo ricevuto molti lavoratori, soprattutto dal Pakistan e dal Bangladesh, e alla fine emerge sempre un sottobosco di disparità retributive e sfruttamento. Il fenomeno è poco roboante, ma fortemente radicato nella nostra società». La prima cosa da fare? «In ambito lavorativo e istituzionale è essenziale dotarsi di mediatori linguistici, una figura che permette di annullare la distanza linguistica, primo vero ostacolo per chi parte da casa per trovare lavoro all’estero».
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