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Vincenzo Luciani, tra psicoanalisi e arte

CON Vincenzo Luciani, spinetolese, noto professionista e oggi artista a tempo pieno, tocchiamo diversi aspetti legati alla sua passata e alla sua “nuova” attività. L’artista ha chiarito le linee essenziali e gli obiettivi della sua ricerca
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Vincenzo Luciani

 

di Gabriele Vecchioni

 

Brevissima premessa relativa alla vita professionale del dottor Vincenzo Luciani: psicologo, psicoanalista, conferenziere, autore di libri e pubblicazioni scientifiche. Una vita piena e appagante che, a un certo punto, prende una piega diversa, grazie all’incontro con l’arte.

 

«Per diversi decenni la mia vita professionale si è dispiegata da un lato all’interno del campo della psicoanalisi e dall’altra nel mio lavoro in Area Vasta 5. La psicoanalisi è stata la mia passione più sentita. Passione coltivata sin dagli anni dell’adolescenza e poi maturata all’interno dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi. L’altra parte del mio lavoro è legato alla direzione prima del Consultorio Familiare e poi delle Cure Tutelari in Area Vasta. È stato un lavoro impegnativo ma interessante perché mi sono potuto occupare di organizzazione e di gestione di servizi sanitari rilevanti. Servizi rivolti alle persone fragili, alla donna, alla coppia, alla famiglia. Ho fatto del mio meglio, con risultati a volte soddisfacenti altre volte meno.

Sì, penso di poter dire di aver avuto una vita intensa e stimolante, senza essermi mai tirato indietro dinanzi alle sfide che ho scelto di accettare, senza dimenticare ciò che diceva Chaplin dell’uomo dinanzi alla vita: «Siamo tutti dilettanti perché non viviamo abbastanza per diventare di più». Ho preso dalla vita quel che ho saputo cogliere, sapendo che sarebbe mancato sempre qualche cosa».

 

Specularità: acrilico su carta

Cosa ti ha spinto a intraprendere il tuo percorso di artista? Cosa significa per te “fare arte”?

 

«Il mio incontro con la pittura è nato dall’esigenza, sarebbe forse più corretto dire dall’urgenza, di sperimentare un linguaggio alternativo alla parola per poter esprimere e, se possibile, trasmettere ciò che ritengo essenziale della natura umana e delle modalità con cui questa si declina nel mondo, soprattutto alla luce della mia formazione psicoanalitica».

 

Le tue opere si discostano dal figurativo, sono chiaramente ispirate all’arte informale, con un codice ben riconoscibile legato anche alla pittura materica e al colore. Da cosa nasce questa scelta?

 

«Le tecniche che utilizzo, tra cui anche quella materica, le ho pensate solo in un secondo momento. Prima c’è stata una scelta di campo “teorica” e non poteva, per me, che essere quella della pittura informale. Ritengo infatti che la pittura informale si presti molto, valorizzando la deformazione, la frammentazione, la commistione delle forme e dei colori, a mettere in primo piano tutto ciò che si pone al di fuori della sfera razionale, tutto ciò che abitualmente rimane invisibile, indicibile, comunque opaco, tutto ciò che risponde alla logica dell’impossibile. Ciò che per ciascuno di noi è “l’impossibile” da dire e da vedere, oltre ad essere il fulcro segreto che muove le nostre esistenze, risponde a una logica molto più complessa rispetto a ciò che definiamo razionalità. Il contrario della logica razionale non è l’irrazionale, come pure affermano molti artisti, bensì un’altra logica: quella dell’inconscio. Per inciso, con il passare degli anni comprendo sempre meno in cosa consista la razionalità. E credo di non essere il solo».

 

Senza titolo: acrilico su tela

Una mia riflessione. Ho letto un pensiero dell’artista Elisa Marianini sull’arte astratta che mi ha colpito: «L’opera è esprimibile attraverso il segno e il colore puro svincolati da ogni rimando di carattere rappresentativo e figurativo. La realtà è rappresentata dalla fotografia, dal cinema e dalla stampa. L’arte deve essere un puro veicolo espressivo senza raccontare o rappresentare. L’arte è armonia, ritmo, equilibrio, musicalità».

 

«Ciò che scrive la pittrice Elisa Marianini, nel passaggio citato da te, a mio parere forse non coglie pienamente l’essenziale della pittura informale. È vero che l’informale non si occupa della realtà, però è necessario dire di cosa si occupa, altrimenti temo che la pittura finisca con l’esaurirsi all’interno di un puro esercizio stilistico, magari anche esteticamente interessante ma, tuttavia, poco intrigante. Credo poi che sia necessario rammentare che la realtà non è un dato percettivo oggettivo bensì è il frutto di una griglia narrativa, simbolica e immaginaria, costruita in modi completamente diversi nel corso dei millenni.

La realtà è strutturata da cima a fondo dal registro immaginario e simbolico, dunque non possiamo accontentarci di pensarla ingenuamente come un semplice dato empirico.  La realtà è sempre una costruzione astratta, anche per quanto concerne la fotografia ed i film. La pittura informale si occupa del reale, vale a dire di tutto ciò che sfugge alla realtà simbolicamente e immaginariamente strutturata. Il reale inteso psicoanaliticamente come l’impossibile a vedersi e a dirsi, è concettualmente agli antipodi della rappresentazione della realtà e non ha nulla a che vedere con l’iperrealismo. Questo reale neppure l’informale è capace di dirlo compiutamente, se non per quanto concerne la sua parte simbolica, perché può solo coglierne i bordi. Possiamo dedurne che la pittura informale è per certi versi votata necessariamente allo scacco. Si tratta di uno scacco strutturale, inevitabile, ma appassionante perché costringe a cercare, a inventare sempre nuove vie per tentare di dire al meglio ciò che non si riuscirà mai a dire, né a vedere. L’informale per me si fonda su questo ancoraggio teorico, senza il quale non avrei avuto nessun interesse per questo tipo di pittura. Naturalmente per altri pittori i riferimenti teorici possono essere differenti.  Ma ritengo indispensabile che ci siano».

 

Grafemi 2: bassorilievo acrilico su tela

Quando hai lavorato in Area Vasta 5 avevi un forte legame con il territorio; oggi, puoi dire la stessa cosa? Nelle tue performance artistiche senti ancora questa appartenenza?

 

«Sento molto l’appartenenza alla mia comunità e al mio territorio. In fondo la stoffa di ognuno di noi è tessuta con i luoghi, gli affetti, i colori, i profumi, gli usi, i costumi dentro cui siamo cresciuti. Il mio precedente lavoro in Area Vasta mi ha permesso di essere costantemente presente nel territorio per affrontare e tentare di risolvere le numerose criticità dei servizi e dei nostri utenti. La mia vita era fatta soprattutto di socialità, di relazioni. Confesso di essere stato fortunato perché ho avuto accanto collaboratori e amici straordinari. Poi, essere vicino al prossimo l’ho sempre sentito come un fatto connaturato al mio modo di essere.

Dedicarmi alla pittura ha cambiato inevitabilmente la mia quotidianità. La pittura è un lavoro solitario, necessariamente solitario.  Naturalmente ci sono le mostre, le visite ai musei, gli scambi di opinioni con i colleghi, nuove amicizie, ma la maggior parte del tempo la trascorro in compagnia dei miei pensieri finalizzati alle opere da realizzare. È per me un modo inedito di attraversare l’esistenza».

 

Quanto del “Vincenzo Luciani psicoanalista” rimane nel “Vincenzo Luciani artista”?

 

«Sono due Vincenzo inseparabili che dialogano costantemente. Come ho già detto non avrei mai potuto avvicinarmi alla pittura, se non fossi stato prima psicoanalista. Il sapere psicoanalitico mi ha permesso di avere una visione poco conforme al senso comune rispetto all’uomo e alla sua intima essenza. E la pittura informale, a mio parere, è lo stile pittorico più utile per tentare di tradurre il linguaggio criptico che abita ciascuno di noi».

 

Pezzi Staccati: acrilico su carta

L’arte è anche ricerca. Per le tue realizzazioni, cerchi nuove tecniche, nuove soluzioni?

 

«Senza una ricerca costante credo che non si possa fare arte. Picasso, beato lui, diceva che non cercava bensì trovava, come d’altronde capita spesso mirabilmente anche ai bambini, molto più vicini al reale di noi adulti. A me invece non rimane che cercare, cercare, cercare.

Tento di imparare dalla tecnica dei pittori più bravi di me, ce ne sono tanti anche nel nostro territorio, ma cerco anche vie inedite, che a volte, inaspettatamente, si materializzano davvero. Mi piace anche la pittura materica perché mi pare che offra un’ulteriore ricchezza espressiva. Così come sono interessato anche al disegno informale che non considero affatto un’arte minore, tutt’altro. La pittura rimane comunque per me un grande mistero, un enigma a cui è difficile dare una risposta soddisfacente. Più ci sono immerso, più cose imparo, più cresce il suo mistero. È una sensazione davvero strana».

 

Le tue opere nascono dal quotidiano, sono meditate o frutto di improvvisazione (l’onda creativa)? Quanta riflessione e quanta estemporaneità ci sono nei tuoi prodotti artistici?

 

«I miei lavori possono nascere sia attraverso una riflessione-progettazione più o meno lunga oppure da un gesto che ha la meglio su qualunque intenzionalità. I lavori concettuali-informali, che tentano di dire ciò che dell’inconscio è iscritto in termini linguistici, sono necessariamente meditati anche se la loro realizzazione presenta sempre qualche cosa di imprevedibile, qualche cosa che si discosta, almeno in parte, rispetto al modo con cui intendo rappresentare una certa idea. Ritengo sia qualche cosa di inevitabile quando si intende tradurre il linguaggio verbale in un linguaggio pittorico. D’altronde anche la traduzione da una lingua all’altra presenta lo stesso problema. Ed è proprio in questa difficoltà di tradurre il linguaggio in un altro linguaggio che si crea lo spazio per permette di far emergere lo stile particolare di ciascun artista. Altre volte, invece, i miei lavori, partono semplicemente da una sorta di illuminazione. In questo secondo caso mi lascio guidare dal gesto.

Spesso le prime pennellate e i primi colori che appongo sulla tela o sulla carta mi costringono a dare all’opera un certo verso. In questo secondo caso il mio lavoro consiste essenzialmente nel cercare di trovare un’armonia tra le forme e le tonalità dei colori. O, magari, al contrario, nell’introdurre delle dissonanze, sia nelle forme che nei colori, tentando di creare un ordine nella disarmonia. Non necessariamente la pittura deve cercare l’armonia, a volte c’è la necessità, non solo stilistica, di essere disarmonici. Ricordo qui, tra i tanti capolavori in cui è ben riconoscibile questa disarmonia della forma e del colore, la Donna che piange di Picasso».

 

Veli: acrilico su carta

Non ricordo dove ho letto (e chi lo ha scritto) che l’opera d’arte deve veicolare emozioni e pensieri, trasmettendo un messaggio fruibile dall’osservatore: proprio per questo le opere si espongono nelle gallerie e nei musei, si tengono le mostre, le collettive e le personali. Se l’opera d’arte riesce a suscitare emozioni significa che ha raggiunto lo scopo per cui è stata realizzata. Mi sembra una riflessione corretta…

 

«Vorrei premettere che non esiste nessuna definizione universale su cosa sia l’arte. Di conseguenza risulta complicato definire in cosa consista un’opera d’arte. E questo nonostante tutti abbiano tentato e tentino una definizione soddisfacente. Quanti grandi artisti non sono stati considerati tali in vita? Ironicamente Vincent van Gogh scriveva che: «Se oggi non valgo nulla, non varrò nulla nemmeno domani; ma se domani scoprono in me dei valori, vuole dire che li posseggo anche oggi. Poiché il grano è grano, anche se la gente dapprima lo prende per erba». È l’artista che deve essere consapevole, o dovrebbe esserlo, se ciò che ha realizzato è per lui un’opera di valore oppure no. Per quanto mi riguarda è una questione a cui sono poco interessato. Credo che ciò che sia davvero indispensabile è che l’artista sia onesto intellettualmente quanto a ciò che crea, senza preoccuparsi se le proprie opere possano piacere o essere considerate insignificanti. Poi naturalmente ognuno fa il suo mestiere e gli storici dell’arte, i critici, i giornalisti del settore, i galleristi, chi guarda un’opera, esprimerà la propria opinione.

Tornando alla tua domanda, credo anch’io che un’opera debba suscitare emozioni e riflessioni. Mi trovo d’accordo con Umberto Eco quando scrive che un’opera pittorica, ma qualunque forma di arte, debba essere considerata “un’opera aperta”, aperta nell’accogliere i multiformi vissuti e interpretazioni di chi la guarda. C’è chi sostiene, non senza qualche ragione, che un’opera si completi soltanto davanti allo sguardo dell’altro. Dell’altro non in quanto spettatore inerte ma come parte integrante dell’opera stessa. Fino a quel momento essa resterebbe, in un certo senso, incompiuta».

 

Sei piuttosto attivo sui social: la tua pagina è, in pratica, un museo virtuale delle tue opere, un’esposizione non-stop a disposizione del visitatore.

 

«Sì è così. Mi è parso del tutto naturale condividere i miei lavori. Non tutti vanno, o possono andare, alle mostre o ai musei, pur avendo interesse per la pittura. Un’opera una volta terminata ha bisogno, come ho appena detto, dello sguardo dell’altro, altrimenti rimane asemantica, muta. È solo lo sguardo dell’altro che può renderla viva, che può dar luogo almeno all’abbozzo di un dialogo. Se poi questo dialogo possa risultare appagante o meno è un’altra questione. A me pare che la mia esperienza sui social, al di là di ogni mia più rosea aspettativa. susciti una certa curiosità in una parte non trascurabile di amici».

 

Ti faccio una domanda relativa al rapporto tra arte e virtuale o, meglio, «l’arte nello spazio del virtuale». Per usare una frase dell’artista visivo italo-argentino Raul Gabriel: «la ricerca espressiva permette esperienze virtuali e concrete insieme».

 

«Raul Gabriel, tra l’altro un artista piuttosto simpatico, ci mostra che la pittura da sempre è anche uno spazio virtuale. Per quanto si nutra di materialità, la pittura non può che essere virtuale in quanto rappresentazione. La pittura, anche quella formale, è rappresentazione in quanto Altro dalla Cosa rappresentata. Ce lo mostra, ad esempio, Magritte nel suo celebre quadro in cui dipinge una pipa. Tautologicamente Magritte aggiunge in didascalia Ceci n’est pas une pipe. Ci dice cioè che la pipa del quadro è solo la rappresentazione di un oggetto materiale. Si tratta di un’affermazione del tutto ovvia, ma Michel Foucault ha sentito la necessità di dedicargli un saggio per mettere in risalto l’aspetto paradossale di quest’opera. Tornando a Raul Gabriel, per quel che ne ho capito, il suo non è affatto un linguaggio di facile lettura, mi pare che il suo intento sia quello di contaminare la materia (la pittura tradizionale) con la tecnologia virtuale. È la mano, il pennello, che si prolungano nel digitale per realizzare nuove forme di sperimentazione. Mi pare un’operazione condivisibile. Mi pare che, in prospettiva, l’impero del virtuale renda la pittura sempre più materia sottile, cioè che la pittura digitale possa assorbire buona parte della pittura tradizionale. Sappiamo, in realtà, che è già così, anche se al momento rimane un fenomeno di nicchia ma che ha un suo mercato. Dovremmo tener conto anche della pittura utilizzata come costruzione di spazi di realtà virtuale nella quale lo spettatore viene immerso, catapultato. Immaginare quali possano essere le ripercussioni sull’arte pittorica tradizionale dell’uso sempre più massiccio della tecnologia virtuale è impossibile da prevedere. Mi piace pensare che questi diversi modi di pensare alla pittura possano solo arricchirla».

 

Ora, il futuro. Nel corso di un precedente colloquio, hai accennato a un progetto nuovo, alla possibilità di collaborare con la prestigiosa galleria d’arte “Gallery 444” di San Francisco, in California.

 

«È una cosa su cui sto lavorando assieme ad alcuni amici statunitensi che vorrebbero che esponessi a San Francisco, ma al momento è un progetto di cui stiamo solo parlando con la gallerista Cindy Fecher. Da un lato ci sono aspetti burocratici, legali e pratici che richiederebbero da parte mia un notevole dispendio di tempo e di energia. Dall’altro sono un po’ titubante perché credo di dover cercare ancor una cifra stilistica più matura. Non è per me la cosa più pressante esporre negli Stati Uniti, o da qualunque altra parte, anche se sono lusingato dalle proposte che mi sono arrivate. Ho anche il timore, dovendo produrre un certo numero di opere da inviare alla galleria ogni mese, che possa perdere la mia autenticità, che possa dedicarmi meno alla ricerca, e questo non lo voglio perché il mio lavoro diventerebbe, probabilmente, altra cosa da quel che è per me in questo momento.  Insomma non so se sono ancora pronto per un cambiamento di questa portata. Vedremo».

 

Folla: acrilico e smalto su tela

Viviamo in un mondo che “va veloce” e spesso non abbiamo il tempo e lo spazio per riflettere e stare con noi stessi. Uso una frase forse troppo abusata: l’arte può aiutarci con la sua bellezza a salvare il mondo?

 

«Certo viviamo in una società che lascia sempre meno spazio alla riflessione. Freud ha scritto che l’uomo vive “con un risparmio di pensiero” e la cosa forse è ancor più vera oggi.  In un mondo sempre più abitato dalla complessità, sarebbe indispensabile riflettere sui mutamenti sociali, culturali, politici, finanziari, tecnologici in atto e dell’impatto che hanno sulle nostre esistenze. Ci sono sfide che dovremmo raccogliere ma al momento non mi pare che ne siamo particolarmente interessati.

Quanto alla bellezza che dovrebbe salvare il mondo, frase che troviamo nel romanzo L’Idiota di Dostoevskij, mi pare un’affermazione che pecca di eccessivo ottimismo. Se dovessimo affidare alla bellezza la salvezza del mondo dovremmo già essere salvi da un bel pezzo. Cosa c’è di più bello della natura nella quale siamo immersi? Viviamo dentro ad un quadro meraviglioso. Viviamo già dentro un universo che dovrebbe stordirci con la sua bellezza. Invece stiamo facendo di tutto per rendere inabitabile il nostro mondo, al punto che c’è chi sta lavorando alla realizzazione sempre più raffinata, perché di fatto già ne esistono diverse versioni, di un metaverso, cioè la possibilità di rifugiarci come avatar, dunque non come spettatori ma in veste di attori, in un mondo virtuale. Dunque non mi pare che possa essere la bellezza a salvare l’umanità. Come diceva lo scrittore tedesco Thomas Mann, «l’artista è l’ultimo a farsi illusioni a proposito della sua influenza sul destino degli uomini». Tuttavia penso che l’arte, in ogni sua forma, può di certo confortare chi se ne appassiona, stendendo il suo velo protettivo, forse persino misericordioso, sulla distopia che è in noi e attorno a noi».

 

Al dottor Luciani i migliori auguri per la sua attività.

 


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