di Walter Luzi
Paolo Beni, capitano e bandiera della Sambenedettese. Per sempre. Un piacere, ogni volta, stare ad ascoltarlo. Perché è schietto come ogni buon toscano, e saggio da molto prima di arrivare ai suoi 88 anni che conta oggi. Perché, lo sappiamo bene, è stato amico fraterno di Renato Campanini, un’altra bandiera come lui, ma sul fronte opposto, quello bianconero. O estimatore assoluto di Carlo Mazzone, e Costantino Rozzi, il presidente che fece la differenza fra l’Ascoli dei quasi quarant’anni passati fra Serie A e Serie B, e quella di cui chiese notizie lui, appena arrivato dalla sua Firenze, a San Benedetto, nel 1960.
«A ventidue anni arrivavo in Serie B dalla Rondinella, che militava in serie D, dove ero cresciuto – ci racconta -. Dopo il ritiro precampionato mi dissero di questa abituale amichevole da giocarsi contro la Del Duca Ascoli. Non ne avevo mai sentito parlare, e ne chiesi notizie. In società mi dissero che era una squadretta dell’interno appena ripescata dalla D, non tanto per meriti sportivi, ma perché era di un capoluogo di provincia. Fu quella amichevole estiva, che si giocava regolarmente quasi tutti gli anni, il mio primo derby giocato contro l’Ascoli. Se ricordo bene vincemmo 3-1, e sugli spalti non succedeva nulla, perché non c’era tutto l’astio che c’è oggi».
Cresciuto in una famiglia operaia, il padre perso quando era ancora un bambino e l’amore promesso, e mantenuto, per tutta la vita, alla sua Fiorenza, quando erano, entrambi, poco più che ragazzini. Della Samb, dove ha giocato in ogni ruolo, diventerà presto un leader, il capitano, e anche di questa piccola cittadina di pescatori finirà per innamorarsi perdutamente. 415 presenze e 22 gol segnati in tredici anni di ininterrotta militanza. Un record difficile da battere.
«Quando arrivai io – ricorda sempre Beni – i soldi erano pochi, arrivavano a volte un po’ in ritardo, ma erano sicuri. Le gradinate del “Ballarin” erano fatte con i tubi innocenti e i tavoloni di legno. Gli spogliatoi ricavati sotto la tribuna ovest, somigliavano a dei fondaci sottoscala. Al campo si accedeva passando in mezzo al pubblico. I nostri tifosi ci davano però una carica incredibile, vicinissimi al terreno di gioco in ogni senso. Il loro calore, il loro fiato ci asciugava il sudore sulle maglie. Grazie a loro, sia in B che in C, abbiamo conosciuto lunghi periodi imbattibilità interna. A guardare la partita, la domenica, venivano tutti con il vestito più buono e la cravatta, e i pescherecci, in occasione dei derby contro l’Ascoli, rientravano persino dalle battute di pesca oceaniche».
Già. I derby. «Erano una festa, una cosa favolosa – ricorda sempre Paolo Beni – molto sentita anche da settimane prima. La carica la sentivi ovunque, per la strada, con gli incitamenti, la pressione dell’ambiente. Al mio bar, il Four Roses, che avevo aperto a San Benedetto, da Ascoli telefonavano spesso per sfottermi. Io, all’epoca, non la prendevo bene, ma, ripensandoci ora, mi viene da sorridere. Nelle notti che precedevano i derby, le due tifoserie andavano a fare scritte provocatorie sui muri degli stadi che li avrebbero ospitati. Una volta, arrivando al “Del Duca” lessi su un muro dello stadio una che riguardava anche me. C’era scritto: “Eliani fallito Beni cornuto”. Ma era solo una forma di folklore dettata dalla passione. Sugli spalti, fra gli animi più accesi, ci poteva scappare anche qualche scazzottata, ma finiva lì. Gli ultras organizzati non esistevano ancora. Nessun tifoso andava allo stadio con il passamontagna calato sul volto, o con il coltello in tasca. Anche in campo noi giocatori si dava tutto, con grande agonismo, ma mai con cattiveria».
Di derby di campionato contro l’Ascoli, tutti in Serie C, Beni ne ha giocati sedici. Il primo a San Benedetto, il 6 gennaio 1964, dove finisce 1-1. L’ultimo ad Ascoli, il 26 marzo 1972, dove la Sambenedettese perde la partita (0-2 con una doppietta di Giuliano Bertarelli) e, almeno fino ad oggi, cinquantatré anni dopo, anche la leadership calcistica provinciale. Sei le vittorie, sette i pareggi e solo tre le sconfitte. Una di queste Paolo Beni se la ricorda ancora bene. Primo marzo 1970. La Samb capolista, seguita in massa dai suoi tifosi, perde 0-1 al “Del Duca”. Partita decisa da un calcio di rigore decretato dall’arbitro lombardo Porcelli in avvio di ripresa.
«Quel fallo su Oltramari, effettivamente, lo commisi – ammette ancora oggi Beni – ma almeno tre metri fuori dall’area. L’arbitro fischiò, invece, incredibilmente, un rigore, trasformato da Pagani, che ci costò, alla fine, una sconfitta immeritata. Protestammo a lungo, fin nel tunnel degli spogliatoi dopo il fischio finale, senza neppure avvederci che, intanto, i nostri tifosi, inviperiti anche loro con l’arbitro, avevano già invaso il terreno di gioco dopo aver abbattuto la rete di recinzione».
Paolo Beni, il capitano, come lo chiamano ancora oggi tutti a San Benedetto, continua ad andare allo stadio a guardare le partite della Samb. Parte per tempo, perché deve aiutarsi con le stampelle, a salire le scale, ma non manca quasi mai.
«Il presidente Massi – continua – nelle ultime stagioni ci ha regalato un abbonamento a tutte noi vecchie glorie della Sambenedettese. Lo scorso anno, finalmente, dopo tante delusioni si è tornati a vincere un campionato. Anche l’Ascoli, dopo la retrocessione in C patita, sembra che quest’anno abbia messo su uno squadrone. Ma il derby è una partita a sé, dove tutto può accadere, e niente può essere dato per scontato».
Per motivi di ordine pubblico, in vista dei derby fra Ascoli e Samb, sono state vietate le trasferte ai tifosi ospiti. Che ne pensa Paolo Beni? «Che è un peccato – commenta – per la cornice, lo spettacolo, che le due tifoserie, calde e appassionate entrambe, avrebbero potuto offrire, insieme al loro supporto ai giocatori in campo. Cori, coreografie e tante bandiere, rossoblù e bianconere, al vento, che non sarà possibile ammirare. Ma la colpa è solo di quelle minoranze violente, che travalicano stupidamente i confini di una sana rivalità sportiva, cercando sempre lo scontro».
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