di Martina Fabiani
Roberto Palpacelli ha quasi cinquanta anni e l’aria da rockstar in pensione, cammina con andamento lento, il suo tono di voce è quasi impercettibile, ma allo stesso tempo solenne quando ha davanti a sé un pubblico. È chiaro che i flash e le attenzioni non gli interessano e si palesa con un: «Dove mi devo mette?». L’occasione è data dalla presentazione di “Il Palpa. Il più forte di tutti”, libro-intervista che racconta la storia dello sportivo Palpacelli, scritto con il giornalista Federico Ferrero e presentato ieri sabato 23 febbraio all’auditorium “Tebaldini”.
Organizzatori dell’incontro l’associazione “I Luoghi della Scrittura” e la Liberia “La Bibliofila”, con il patrocinio ed il sostegno dell’Amministrazione comunale e della Regione Marche. Hanno conversato con il tennista l’assessore Pierluigi Tassotti, Mario Massucci e Maurizio Ricci.
Seppur amante della musica, Roberto Palpacelli è a suo modo una rockstar, ma del tennis. Nato a Pescara nel 1970 è stato uno dei più giovani tennisti italiani a toccare i vertici della categoria B, ottenendo il suo unico punto Atp in doppio nel 1999.
Roberto Palpacelli durante il firmacopie
Nonostante qualche esitazione iniziale, tra domande degli interlocutori e sorrisi di un pubblico di affezionati e conoscenti, Palpacelli riesce a rompere il ghiaccio e raccontare la sua incredibile storia. È una storia che ha dentro diversi ingredienti, la sua: passione, eccessi, vittorie e cadute. «Molti dicono che sarebbe potuto diventare un campione del tennis e che avrebbe potuto godersi la vita a questo punto -afferma Tassotti- io penso che la vita, invece, se la sia goduta a modo suo». L’ex sportivo racconta di essere arrivato nella Riviera delle Palme nel 1985 per via degli impegni calcistici di suo padre. «Vivo a Pescara, ma il cuore ce l’ho qui», racconta. È proprio qui che il Palpacelli quindicenne si crea il suo primo gruppo di amici, fa le prime esperienze e si iscrive al circolo tennis “G. Maggioni”. «Non mi rendevo conto di essere forte. È stato Ferrante Rocchi a propormi una carriera da professionista», racconta Roberto. A sedici anni – e diverse dipendenze già in atto – il giovane riceve, dunque, la prima proposta di nazionale da nientedimeno che Paolo Bertolucci e Adriano Panatta. Nazionale equivaleva ad allenamenti e partite, residenza ai Parioli e nessuna spesa. «Altro che Parioli, in questo lager non ci voglio stare un secondo di più», fu la risposta di un sedicenne che di lasciare il mare e i suoi amici non aveva la benché minima voglia. Ma dietro quel rifiuto c’era, forse, anche una paura di inadeguatezza. «Non ero pronto per un impegno del genere. Avevo altro nella testa, che mi piaceva di più -racconta il Palpa- per diventare un campione non basta saper giocare a tennis, ci vogliono tante altre componenti: sacrificio, costanza, deve essere come un lavoro». Roberto Palpacelli di occasioni ne ha avute. Ad esempio quella a Sciacca per la Coppa Europa, che gli valse il depennamento dalla federazione tennis per alcool e spaccio. Di grandi del tennis Palpacelli ne ha incontrati, ma su di lui aleggiano anche tante, forse troppe, leggende metropolitane. «Dicono che ho battuto Boris Becker tre volte e a me le cose non vere fanno incazzare – afferma – Becker a 17 anni ha vinto a Wimbledon e io a 14 non vi dico quello che facevo». Alcuni aneddoti invece sono veri: «A volte disputavo dei match da fatto e ubriaco, non so come facevo, ma accadeva», confessa Roberto.
Da destra: Maurizio Ricci, Roberto Palpacelli, Mimmo Minuto e Pierluigi Tassotti
Oggi Palpacelli insegna tennis, ha una compagna e un figlio. Frequenta un dopolavoro che è per lui una seconda casa. Viaggia spesso con il treno tra Pescara e San Benedetto, dove gioca qualche ora a tennis con alcuni amici e, tutto sommato, si ritiene tranquillo. Non ha la patente e probabilmente non la prenderà mai. La svolta nella sua vita c’è stata circa cinque anni fa: «Mi sono fermato al limite, avevo lo stomaco bruciato e il fisico che non mi reggeva più» afferma Palpa. Un auditorium non gremito, quello di ieri, ma caldo. Tanti hanno voluto prendere la parola dopo l’intervento del protagonista, tanti gli hanno dimostrato un affetto sincero. «L’unico errore nel libro è stato quello di definire Roberto un talento mancato perché, secondo me, è un talento umano affermato», afferma a gran voce l’amico Arnaldo. Interviene anche Beatrice, una sua allieva di Pescara: «Roberto mi trasmette qualcosa in campo che nessun altro mi ha mai dato ed è qualcosa di profondamente umano. Per questo non smetterò mai di ringraziarlo».
Il Palpa in campo
Difficile definire la persona di Roberto Palpacelli. Per alcuni è un campione mancato, per altri un perdente, per altri ancora un ribelle. «Cosa farei se mi proponessero oggi la nazionale? Non lo so, ho un figlio, ho trovato la tranquillità e va bene così -confessa in extremis il tennista- se dovessi insegnare qualcosa ad un giovane che vuole intraprendere questo sport, sarebbe come stare in campo, come vivere e relazionarsi con gli altri». Non si può definire Roberto Palpacelli perché è semplicemente Roberto Palpacelli, un essere umano.
Palpacelli con il suo libro
Il libro
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