Il vescovo di Ascoli, Giovanni D’Ercole, durante il suo intervento nel carcere del Marino
di Stefania Mistichelli
«Uno dei primi impegni, scritto nel dna stesso delle carceri, è che un giorno non esistano più. Il mio appello è che davvero in Italia si moltiplichino le esperienze che prevedano l’abbattimento delle mura del carcere, perché è evidente che con il tempo andranno trovate forme alternative, che permettano di fare vera prevenzione, accompagnamento di chi sbaglia e, infine, reinserimento nella società». Non usa mezzi termini il vescovo di Ascoli Giovanni D’Ercole, in occasione del corso di formazione “Giornalismo di pace. La verità oltre le sbarre” che si è tenuto all’interno del carcere di Marino del Tronto.
L’incontro, prendendo spunto dal tema delle fake news sollevato da Papa Francesco in occasione della giornata delle comunicazioni sociali, rappresentava il secondo appuntamento itinerante del “5° Meeting nazionale giornalisti cattolici e non”. Un folto gruppo di giornalisti ha accolto l’invito di varcare le porte del carcere ed ascoltare non solo le relazioni di Andrea Domaschio caporedattore Radio InBlu, Francesco Zanotti del Corriere Cesenate, Marco Tarquinio direttore di Avvenire, Lucia Di Feliciantonio direttrice del carcere e del vescovo D’Ercole, coordinati dal giornalista e docente Giovanni Tridente, ma anche e soprattutto la testimonianza di tre detenuti – Antonino, Antonio, Giampiero – che hanno condiviso con i presenti la loro esperienza.
Esperienze di detenzione e di rinascita, di caduta e di presa di coscienza dei propri errori, di vita reale vissuta, per la maggior parte, dietro le sbarre. «Io adesso mi sento libero – afferma Giampiero, origini ascolane, con una condanna di 9 anni da scontare e dodici già vissuti all’interno del regime carcerio – perché ho preso coscienza dei miei errori e ho fatto pace con me stesso. Sono sempre stato irrequieto e trasgressivo. Oggi cerco di essere un esempio soprattutto per i ragazzi che entrano qui poco più che diciottenni, per aiutarli ad aprire loro gli occhi». Tante le attività che oggi si possono svolgere in carcere, per contrastare quello che la direttrice Di Feliciantonio definisce «l’ozio in cella e il rischio di abrutimento di fronte alla tv»: dalla scuola al teatro, dal laboratorio di decoupage i cui proventi vanno a sostenere un’adozione a distanza al lavoro vero e proprio, quello remunerato, che i detenuti svolgono in carcere o, se hanno intrapreso un percorso positivo di reinserimento nella società, al di fuori dei cancelli. «Sono tutte opportunità per avviare un lavoro su stessi – spiega Antonino – ma che non servono a nulla se non c’è dentro di te la voglia di cambiare. Certo le cose negli anni sono migliorate: prima si scontava la pena tra cella e aria, oggi è diverso. Personalmente, ad avermi “destabilizzato”, è stata l’esperienza del teatro. Oggi ho ricominciato a frequentare la scuola non solo per uscire dalla cella, ma perché ho un progetto futuro. I miei pensieri oggi non sono più “bellicosi”, ma collocati all’interno di un percorso di legalità».
E per favorire un reale reinserimento nella società e contribuire ad abbattere il pregiudizio che riguarda la detenzione e i detenuti acquisisce un ruolo fondamentale la conoscenza e l’informazione. «La verità oltre le sbarre – afferma il direttore di “Avvenire” Marco Tarquinio – è la persona umana. Da qui dovremmo partire sempre, come giornalisti, quando scriviamo di persone denunciate o anche condannate: stiamo parlando di uomini e delle persone che a loro sono vicini». Tra giustizialismo e permissivismo la direttrice Lucia Di Feliciantonio indica la via. «La soluzione ce l’hanno data i padri costituenti – spiega – con l’articolo 27, che spazza via questa dicotomia introducendo il concetto di reinserimento sociale. Lavorare per la rieducazione vuol dire che la pena diventa progetto di vita».
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