I Pere Ubu durante la performance di Monteprandone (foto di Fabio Crescenzi)
di Martina Fabiani
«And if the devil comes we’ll shoot him with a gun», recita il pezzo “Laughing” dei Pere Ubu, appartenente alla pietra miliare “The Modern Dance” (1978). La stessa pistola con la quale, probabilmente, parecchi anni dopo Kurt Cobain decise di porre fine alla propria vita in un capanno degli attrezzi di Lake Washington. Non sono bastati gli urli rabbiosi e la fuga nei paradisi artificiali a salvarlo, l’idolo di tutta una generazione ha preferito desistere. David Thomas, front-man e icona degli storici Pere Ubu ha, invece, continuato ad urlare e ad inveire contro quel reale assoggettato a una «Techniramic Heartache» in cui «I can see the faces falling down». Figli di un’America apocalittica – reduce di un illusorio boom economico e, quindi, otturata dalla rivoluzione tecnologica e schiava delle logiche del profitto e della produttività –, la band originaria di Cleveland ha trasposto tutto questo in musica.
David Thomas
Il loro ultimo album, “20 Years in A Montana Missile Silo”, è uscito lo scorso settembre e, tra le cinque date del tour italiano Monkey Net Tour, appare anche il Centro Pacetti di Monteprandone. Il sodalizio di Pink Rabbits e Massimo Bonfigli colpisce ancora e porta a casa un altro evento di calibro internazionale; a tal proposito, il prossimo sarà a novembre con il songwriter australiano Scott Matthew. Intanto ieri, 10 settembre, direttamente dall’Ohio, i Pere Ubu hanno riempito fino all’orlo l’auditorium per un’ora e mezza di straniamento misto ad estasi.
Precursori di quel vastissimo e policromo fenomeno rappresentato dalla new wave, attraverso quarant’anni di carriera, i Pere Ubu hanno accolto gli impeti del punk, poetizzato gli esercizi di stile del progressive, catturato il senso angosciante e allucinatorio di una società post-industriale con l’utilizzo sperimentale di sintetizzatori e theremin, inglobato il recitato della tradizione teatrale. Proprio da una pièce teatrale deriva il nome del gruppo, precisamente da “Ubu Roi” di Alfred Jarry, che anticipa l’”antiteatro” degli anni ’50 . L’opera si caratterizza per un tono provocatorio, un linguaggio inadatto per i personaggi e i luoghi del suo tempo, delineando i contorni di una figura (padre Ubu) spaventosa e meschina, pronta a sacrificare tutto e tutti per seguire i dettami del potere. Nella stessa maniera in cui Jarry con il suo teatro dell’assurdo si fa beffe della società borghese, la musica di Thomas e co. è una satira dei tempi moderni e in quanto tale può risultare spesso sgraziata, appunto assurda, atipica.
Un’entrata in scena claudicante, quella di David Thomas, con tanto di bastone della vecchiaia. I suoi sessantacinque anni si vedono tutti, nel fisico e nell’animo. Sedutosi con l’ausilio degli altri membri della band, il leader degli Ubu è rimasto a sedere tutto il tempo, alternando canzoni a sorsi di vino rosso e intermezzi deliranti. E nonostante questo una voce ancora strabiliante. Nulla ha stonato con una performance musicale degna di lode da parte di ognuno dei sei componenti. Accanto a Thomas, per l’occasione, due elementi storici come Michele Temple al basso e Tom Herman alla chitarra. Poi Robert Wheeler al synth e theremin, Steve Mehlman alla batteria e, per finire, Darryl Boon alla tastiera e al clarinetto. Eseguiti venti brani che hanno ripercorso un po’ tutto il repertorio della band. Un inizio senza parole con “Slow Walking Daddy”, “Breath” e “Worlds”, prima di introdurci nel nuovo album così: «Abbiamo una canzone su una scimmia ed è l’unica cosa che deve interessarvi». E via con la lisergica “Monkey Bizness”, seguita da “Funk 49” e il cupo blues di “Prison of The Senses”, fino ad arrivare all’onomatopeica “Howl”.
Scatta inevitabilmente, per i pochi under 30 presenti in sala, una sorta di devozione nei confronti di mostri sacri come i Pere Ubu. La loro esperienza si rende palesemente visibile non solo dai capelli grigi, ma da un uso sapiente e quasi sacrale della strumentazione. Era un pubblico prevalentemente adulto quello del live, non casuale e attento. Per la tripletta “Over My Head”, “Steet Waves” e “Laughing” ci sono mani che si alzano, qualche discreta ovazione, applausi più forti. È una musica visionaria, a tratti brutale, isterica. I vocalizzi di Thomas, resi estremi in una sala fondamentalmente piccola, le perversioni sintetiche di Wheeler, genio manipolatore del suo strumento – spettacolare anche da guardare – e le chitarre distorte trasportano l’ascoltatore nel più buio dei labirinti, nel più tetro dei sotterranei, nel più profondo degli abissi.
E quindi, niente, ad un certo punto del concerto è inevitabile perdersi. E va bene così. Thomas, durante i suoi monologhi tra un pezzo e l’altro, si domanda se siamo in grado di comprendere davvero le sue parole, pur sapendo che non è importante quando sei cosciente del fatto che duecento persone sono lì solo per te, per voi, e che non esiste linguaggio così universale come la musica.
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