di Federico Ameli
Qualche giorno fa, insieme a Nello Giordani – sociologo del Comune di Ascoli e criminologo clinico – abbiamo analizzato la rapida ascesa del modello professionale dello smart working, che dalla prima esperienza del telelavoro di una ventina d’anni fa ha saputo reinventarsi e guadagnare consensi in tutto il mondo fino alla recente consacrazione per via di un’emergenza sanitaria che imponeva un rigoroso distanziamento sociale (leggi la prima parte dell’intervista).
Nello Giordani
A qualche giorno di distanza, è tempo di riprendere il discorso esaminando in che modo, e soprattutto con quali conseguenze, il cosiddetto “lavoro intelligente” sia riuscito a imporsi sulle tradizionali modalità operative sia del pubblico che del privato.
«È necessario – spiega Giordani – partire da una sottolineatura doverosa. Il digitale e il web sono la più grande rivoluzione del nostro secolo, un fattore di cui non possiamo non tener conto. L’avvento delle nuove tecnologie ha influenzato il nostro modo di parlare e anche di vivere e, come tutte le rivoluzioni, modificherà significativamente le coscienze e gli stili di vita.
A questo proposito, Norberto Bobbio sostiene che tutte le rivoluzioni tecniche, a differenza di quelle culturali, ci impediscono di tornare indietro. Ad esempio, una volta entrate a far parte della nostra vita, non riusciamo più a fare a meno della lampadina o della lavatrice.
La rivoluzione tecnologica è irreversibile – continua – e non consente di tornare indietro, per maledizione divina o per meraviglia, a seconda dei punti di vista. Vengono spesso rimessi in discussione temi culturali come, per citarne uno, il valore legale dei titoli di studio, ma nessuno osa fare lo stesso con l’energia elettrica o la televisione».
Con la società e il mondo del lavoro ormai incanalate nel solco delle nuove tecnologie, secondo Giordani l’avvento dello smart working rappresenterà un’evoluzione a cui, seppur maturata per sopraggiunte necessità, sarà piuttosto complicato sottrarsi negli anni a venire. Di conseguenza, per prepararsi al meglio a ciò che ci attende è bene analizzare con attenzione qualche dato relativo a questi primi mesi di “lavoro intelligente” più o meno generalizzato, quantomeno in Italia.
«Secondo una ricerca condotta dall’associazione di imprese Valore D – dichiara il sociologo dell’Arengo – sono principalmente le donne a sfruttare i vantaggi dello smart working. Tuttavia, una situazione del genere fa sì che esse stesse si ritrovino a lavorare di più rispetto a prima in quanto, dovendosi in molti casi occupare anche della casa e della gestione dei figli, oltre a dover portare a termine le consuete attività lavorative devono fare i conti anche con le mansioni domestiche dalle quali, dovendo trascorrere gran parte della giornata sul posto di lavoro, fino all’avvento della pandemia erano in qualche modo giustificate.
Nel 2021 quasi una donna su tre ha visto aumentare la mole di lavoro e fa fatica a mantenere l’equilibrio tra la professione e la vita domestica, mentre per gli uomini il rapporto è di uno su cinque».
Si tratta dei cosiddetti effetti emergenti di cui parla Raymond Boudon, ossia quegli aspetti negativi o quantomeno controversi di fenomeni apparentemente positivi su cui gli esseri umani, almeno in un primo momento, non si erano soffermati a riflettere. Ebbene, secondo quanto emerso in questi mesi di emergenza sanitaria non si tratterebbe certo di una problematica esclusivamente al femminile.
«Oltre all’assenza di relazioni – di cui abbiamo già avuto modo di parlare nella precedente intervista, ndr – accade spesso di sentire un’incredibile quantità di parole inutili proferite una dietro l’altra sia dai ragazzi che dagli adulti. Io lo definisco “profluvio di parole”, ossia utilizzare più parole del dovuto per esprimere un concetto semplice, un po’ come si fa su Internet. Si parla, ma in realtà non è altro che la manifestazione di uno svuotamento interiore. In psichiatria si chiama logorrea, un disturbo mentale tipico degli schizofrenici. È questo è il vuoto interiore, il pericolo che dobbiamo saper gestire, anche perché è impossibile tornare indietro.
Gli esseri umani – prosegue Giordani – hanno bisogno di vedersi e di toccarsi. Nel digitale tutto ciò ci viene proibito, con una decurtazione, una menomazione che ci costringe a ragionare un po’ come le macchine. Ecco perché assumiamo lo stesso atteggiamento della macchina, parlando proprio come loro».
Effetti emergenti di un fenomeno che, a prima vista, ha senza dubbio contribuito a contenere la diffusione del contagio, ma che evidentemente nasconde dei lati ben più preoccupanti. Tornare indietro, però, non può essere un’ipotesi contemplabile.
«Il digitale va gestito e non demonizzato – sostiene il sociologo -. Quando arrivarono le prime macchine prese piede il fenomeno del luddismo, ossia la rivolta degli operai contro queste nuove apparecchiature che rovinavano la mente e toglievano lavoro. Oggi, tuttavia, non è pensabile dire di no all’automazione e ai monitor. È necessario convivere con lo smart working, magari inserendo due ore di ricreazione e di contatto umano all’interno del turno.
D’altra parte – conclude Giordani – l’uomo saggio è colui che sa gestire le innovazioni tecnologiche, che portano del bene solo quando gli uomini si rivelano in grado di sfruttarle con intelligenza.
A questo proposito qualcuno è catastrofico, ma personalmente preferisco vedere il futuro con ottimismo, poiché la macchina può davvero aiutarci a comprendere tutti i nostri limiti».
Produttività e isolamento sociale: lo smart working secondo Nello Giordani
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