di Luca Capponi
A memoria, con certezza quasi matematica, si può affermare che mai prima d’ora il mondo del calcio si era ritrovato a piangere, in maniera così ravvicinata, la dipartita di tre personaggi di grande levatura. Nel giro di venti giorni prima Sinisa Mihajlovic poi Pelè e, da poche ore, Gianluca Vialli.
Ognuno di loro a suo modo speciale per essere divenuto, nel corso del tempo, un vero e proprio simbolo. Un esempio per milioni di persone. E gli esempi, si sa, sono soliti travalicare il rettangolo verde per stagliarsi con naturalezza nell’immaginario collettivo.
È accaduto con Sinisa, l’uomo venuto dai Balcani e dalla guerra, dapprima temuto quando giocava e infilava le porte avversarie a suon di bolidi, poi impostosi come uomo tutto d’un pezzo in panchina. Infine diventato, suo malgrado, emblema coraggioso della lotta contro la leucemia che l’aveva colpito tre anni fa e a cui ha dovuto cedere lo scorso 16 dicembre, a soli 53 anni.
Poi Pelè, il Re, uno dei calciatori più forti, se non il più forte, ad avere mai solcato i campi di calcio, il ragazzo povero che non aveva soldi per comprarsi un pallone e giocava con gli stracci ma che poi vinse, unico, ben tre Mondiali col suo Brasile. La pantera che ha segnato schiere di generazioni, sempre col sorriso in viso, sorriso spentosi il 29 dicembre a 82 anni.
Infine Vialli, un altro che, come Mihajlovic, ha segnato il calcio degli anni ’80 e ’90, il bomber delle rovesciate che fu più volte protagonista anche al “Del Duca” di Ascoli con la Sampdoria, dove proprio il serbo segnò il suo ultimo gol in Serie A. Poi la panchina e, da ultimo, i trionfi in Nazionale con l’amico Mancini. Con Mihajlovic aveva condiviso, oltre alla casacca blucerchiata, anche la sfida più tremenda, quella della malattia. Un tumore che, a 58 anni, non gli ha lasciato scampo ma che aveva imparato ad affrontare apertamente con un piglio per certi versi inedito, quasi filosofico, saggio, in netto contrasto con il carattere fumantino che aveva quando giocava.
Inevitabile il levarsi di un’onda emotiva praticamente globale, come sempre accade in questi casi, fatto amplificato ancor di più dai social network, dove in pochi, dagli amici più stretti ai tifosi degli angoli più remoti, si sono sottratti al tributo virtuale. Un’onda che a tratti sembra quasi invasiva, ma da cui è impossibile non farsi travolgere e che, inevitabilmente, ha accomunato tutti e tre. Perchè tutti e tre, per un motivo o per l’altro, si sono mostrati più vicini di altri alla gente comune, per via di quella fragilità umana spesso, essa sì, lontana dall’immagine pubblica di un campione.
La povertà e il riscatto di Pelè, la sfrontatezza della gioventù, la voglia di non mollare, di aiutare; le lacrime di Mihajlovic e Vialli, la scelta di non nascondersi ma di mostrarsi diversi, cambiati fisicamente dal male, in piedi, ancora, per dare speranza a chi, lontano dai riflettori, si trova a combattere battaglie simili da solo, in un letto d’ospedale, senza gli stessi mezzi economici, le stesse cure amorevoli o lo stesso affetto.
Mihajlovic, Pelè e Vialli questo lo sapevano. Sapevano anche che infondere a qualcuno quel coraggio che cerchi a tutti i costi, ogni minuto, per andare avanti, è uno dei gesti più nobili che l’essere umano può compiere. E loro, quel coraggio, l’hanno trovato. Donandolo a persone che neanche conoscevano. Ma che credevano in loro.
Questi tre campioni hanno lasciato un’eredità di altissimo profilo, di cui tutti dovremmo far tesoro.
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