Le piante dei calanchi, le uniche in grado di sopravvivere in lande inospitali

REPORTAGE -  In un paesaggio scavato dalle acque meteoriche, con un aspetto simile a un deserto lunare nei dintorni di Ascoli, questi vegetali si sono adattati a condizioni estreme, rivelandosi particolarmente resistenti, con precoci fioriture primaverili e autunnali e una fase di riposo estivo
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Ripaberarda “sospesa” sui calanchi (ph A. Palermi)

 

di Gabriele Vecchioni

 

«I paesaggi collinari argillosi di alcune regioni, tra le quali quella marchigiana, sono interessati spesso da vari sistemi di erosione a solchi (gully erosion) che nella letteratura italiana sono detti calanchi. La rapidità con la quale procede questa forma di erosione ostacola in certe situazioni la formazione dei suoli e, quindi, la sopravvivenza delle specie vegetali, conferendo un aspetto quasi lunare al paesaggio (S. Cocco, 1996)»

L’abitato di Ripaberarda domina l’aspro paesaggio dei calanchi dell’alta valle del Bretta. Nel 1510, l’erosione del torrente Macchia causò la frana di due terzi del castello e della chiesa benedettina di Sant’Egidio, della quale rimane l’isolato campanile, dall’inconfondibile profilo (ph A. Palermi)

Uno dei paesaggi più affascinanti che si incontra nei dintorni di Ascoli Piceno è quello dei calanchi: a pochi chilometri dalla città ci si ritrova in un mondo “altro”, dentro un paesaggio scavato dalle acque meteoriche, con un aspetto simile a un deserto lunare. Cronache picene ha già dedicato un lungo articolo (leggilo qui) a questo aspetto del territorio piceno; in questo, sarà approfondito un aspetto poco conosciuto dai più, quello delle piante che riescono, nonostante le difficoltà oggettive, a vegetare in queste lande inospitali.

Prima di procedere, rileggiamo una bella descrizione, quasi giornalistica, del territorio calanchivo da parte di Giuseppe Bruzzo che, nell’Enciclopedia Italiana scriveva (1930): «Le acque piovane e di dilavamento determinano sulla superficie dei versanti frequenti minutissimi frastagli, profonde incisioni, separate l’una dall’altra da sottili tramezzi, alti e corrosi, sostenuti da innumerevoli speroni acuminati, coronate da guglie e cuspidi multiformi, che dalle creste declinano a pendii ripidi sulle vallecole sottostanti; di un colore fer­rigno e cupo, di triste e monotona intonazione».

 

Il ciclo dei calanchi. Un articolo giornalistico sul territorio non è la sede adatta per una disamina approfondita del fenomeno calanchivo che, pure, interessa vaste aree della nostra zona. Chi fosse interessato, può effettuare ricerche sul web e in letteratura sui tanti lavori relativi all’argomento; qui saranno date solo informazioni essenziali sulla loro formazione, limitandoci all’aspetto “fisico” e tralasciando, per quanto possibile, quelli pedologici e climatici, maggiormente specialistici.

Tempo fa, in un interessante articolo su una rivista specialistica, Stefania Cocco descrisse il ciclo di formazione del calanco: «L’evoluzione del fenomeno calanchivo procede secondo una parabola in cui è possibile distinguere tre momenti: giovanile, di maturità e di senilità». Vediamo di approfondire alcuni aspetti per una più facile comprensione.

Piante di sulla (una leguminosa) inquadrano i calanchi dell’Ascensione (ph P. Tarli)

Nella prima fase (la cosiddetta fase giovanile) le acque meteoriche defluiscono sul terreno argilloso e con lo scorrimento superficiale inizia l’azione di erosione che procede con rivoli sulle linee di massima pendenza o di discontinuità (fratture e faglie). Ai solchi di erosione si aggiungono gli affluenti, con ramificazioni a pettine e cedimenti sulle sponde: viene così mantenuto un certo grado di acclività (lo stato di pendenza del terreno): tra le concause che favoriscono la formazione dei calanchi, la ripidità dei versanti è uno dei più efficaci fattori nel facilitare il (rapido) deflusso dell’acqua e l’impostazione del reticolo calanchivo di drenaggio. Il processo di demolizione sui fianchi e alla sommità del piccolo bacino che si crea provoca un accumulo di materiale alla base del calanco in formazione.

Nella fase di maturità i reticoli si allargano aumentando, così, il processo di demolizione, il trasporto e il deposito a valle del materiale asportato. I processi erosivi sono intensi, per la natura pelitica dei depositi (prevalentemente argillosi) e si accentua la formazione delle morfologie calanchive. Il ruscellamento delle acque è facilitato da una ridotta presenza di vegetazione; è una situazione che predispone a un’erosione accelerata e ne è, al tempo stesso, una conseguenza: spesso, forti precipitazioni provocano estesi movimenti (colature, scivolamenti), denudando i versanti interessati.

Nella fase di senilità del calanco il substrato argilloso è stato completamente asportato e/o il profilo è tale che le acque di scorrimento non sono più “selvagge” e l’erosione si è trasferita all’alveo; si innesca il processo di recupero da parte delle piante pioniere (erbe e arbusti) con miglioramento dell’aspetto pedogenetico. Qui è ridotta «l’erosività, ossia l’alto grado di capacità potenziale della pioggia a causare erosione, che non può più esprimersi per la perdita, da parte del substrato argilloso sottoposto a calanchizzazione, del suo indice di erodibilità: della sua vulnerabilità all’erosione. Esiste una stretta correlazione quindi tra l’evoluzione del fenomeno e il regime delle precipitazioni, con la loro frequenza e la loro intensità (S. Cocco, 1996)».

L’articolo citato si conclude con alcuni spunti sul recupero delle aree calanchive a fini agronomici e per la protezione del suolo per frenare lo scivolamento gravitativo, con la regimazione delle acque di scorrimento, il controllo delle lavorazioni in testa al calanco e il ripristino della vegetazione al piede del calanco. Ma questo è un altro discorso.

Area calanchiva stabilizzata e assediata dalla vegetazione ad Appignano del Tronto (ph G. Vecchioni)

Le piante dei calanchi. L’ambiente calanchivo è un ambiente e­stremo, particolarmente stressante per le piante sia dal punto di vista geomorfologico sia da quello microclimatico: esse sono da considerarsi veri pionieri della colonizzazione vegetale e devono avere caratteristiche pe­culiari per adattarsi a un habitat così difficile. Le condizioni estreme selezionano poche specie stabilizzate, particolarmente resistenti, con precoci fioriture primaverili e autunnali e una fase di riposo estivo.

Il suolo è arido e carente di materiale umico (dal termine humus); al contrario, è ricco di sali minerali, essendo costituito da depositi di argille plioceniche di origine marina. La natura stessa del terreno (prevalentemente argillosa) causa un ridotto apporto di ossigeno alle radici delle piante, specie quando esso è bagnato. Il substrato, instabile per la struttura granulosa, subisce inoltre processi erosivi che scoprono le radici delle poche piante che si sviluppano nelle zone meno acclivi, causandone l’elimi­na­zione; nelle stagioni piovose, la quantità di acqua assorbita è molto alta: il terreno si gonfia e scivola a valle.

Le argille impermeabili facilitano lo scorrimento superficiale dell’acqua meteorica, impedendo la formazione di riserve idriche e quella di humus, rendendo difficile la crescita della vegetazione: già al­l’i­ni­zio del­la stagione estiva, le rare specie erbacee – quasi tutte specie a breve ciclo biologico (annuali) – sono secche.

Piccola area rimboschita con specie resinose per consolidare un versante nell’area del Bretta (ph G. Vecchioni)

Le piante erbacee annuali, a fenantèsi (fioritura) primaverile, prima dell’aridità estiva rilasciano i semi che l’an­no dopo daranno vita a nuove piante.

La luce radente del tramonto illumina i calanchi del Chifente. Come spiegato nel testo, alla base dei calanchi, vaste aree coltivate e lembi di vegetazione arborea (ph L. Piunti)

Le aree sommitali dei calanchi e i crinali che separano le vallecole ospitano arbusti xerofili (che resistono in ambienti aridi) e aree prative di graminacee, esistenti prima del­l’in­ne­sco dei processi erosivi; nel fondovalle, favorite dal­la posizione che permette la raccolta delle acque del­l’impluvio, vegetano specie più igrofile.

Sulle ridotte superfici sommitali sopraelevate, quando sono libere da coltivazioni, si sviluppano brometi (cenosi prative con prevalenza della gramicea Bromus), associati a cespugli di ginestra e arbusti, principalmente sugli orli delle strutture; può essere presente la tamerice, una specie alofita – cioè amante degli ambienti salmastri – as­sai resistente alla siccità. Le colate di limo, comuni nelle aree calanchive, hanno un effetto positivo sulla biologia di questa pianta che ha grandi capacità di radicazione da porzioni di fusto.

Arbusti di ginestra (a sx, ph A. Mozzoni; a dx, ph G. Vecchioni)

La ginestra odorosa o ginestra di Spagna, che vegeta nelle aree di margine dei calanchi è una specie perenne a portamento arbustivo e a crescita rapida che ben sopporta l’aridità e consolida il terreno, grazie alle sue lunghe radici.

Il “ciuffo” (botanicamente è una pannocchia) della canna del Reno (Arundo Pliniana), graminacea perenne presente nelle aree calanchive dell’Ascensione

Nelle zone basali, strette aree alla base degli impluvi, dove l’acqua tende ad ac­cumularsi e c’è uno scarso irraggiamento, si trovano specie igrofile come i canneti di cannuccia di palude, canna comune e canna del Reno. Sulle ripide pareti calanchive vivono gra­mi­na­cee xerofite, adattate all’ambiente a­rido per i fusti sottili, l’espansione fogliare rimpicciolita, per ridurre l’evapo­tra­spi­ra­zio­ne, e le lunghe e robuste radici (la gramigna ha un esteso apparato radicale che può arrivare fino a 2 m di profondità). Tra le specie arboree, il pioppo (Po­pulus sp.) forma ampie boscaglie nei fondivalle e nelle aree ripariali.

«I versanti ca­lanchivi esposti all’attività e­ro­siva vengono colonizzati da una vegetazione pioniera perenne dominata dalla graminacea Elytrigia atherica (= Agropy­ron pungens, la gramigna) e attribuita al­l’as­so­ciazione Elytrigio athericae-Aste­re­tum li­nosyridis. Si tratta di una cenosi ampiamente diffusa nell’esteso paesaggio dei calanchi del torrente Bretta e che si presenta in forma ti­pica lungo le superfici dei versanti parzialmente consolidati (Fabio Taffetani, 2000)». L’autore descrive le dense for­ma­zioni a canna del Re­no presenti nei versanti più freschi e umidi dei calanchi dell’A­scen­sione, in particolare sul fondo dell’area localizzata sotto il centro storico di Ripaberarda.

 

Nelle aree abbandonate si trovano, frequentemente, ar­bu­steti a ginestra e prugnòlo, con forte presenza di rosa canina, biancospino, rovi e vitalba. Il rovo, in particolare, si sviluppa in zo­ne alterate o abbandonate, arrivando alla copertura totale del terreno da parte dei frutici, una condizione che impedisce l’im­pianto di altre specie.

In queste poche righe relative al patrimonio naturalistico delle zone calanchive, ci siamo attenuti alle piante “spontanee”.

 

Boscaglia di robinia (ph G. Vecchioni)

Sui bordi stradali compaiono, anche qui, esemplari di specie aliene ubiquitarie. L’ambiente più riconoscibile è quello costituito dalle boscaglie di robinia (Robinia pseudoacacia). Questo albero delle Leguminose, originario dell’America del Nord e importato all’ini­zio del ‘600 da Robin, curatore dell’Orto Botanico del Re di Francia, è ormai diffuso in ogni dove e ha assunto il carattere della specie infestante. In zona, colonizza scarpate degradate e cigli stradali e spesso forma, negli impluvi, boscaglie fitte. La robinia è molto competitiva nei confronti delle specie spontanee e tende a sostituirle: risulta problematico eliminarla o anche solo limitarne l’inva­denza perché il taglio porta al cosiddetto “ringio­vani­men­to” della pianta, con conseguente stimolazione della sua capacità pollonifera, anche radicale.

 


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