di Gabriele Vecchioni
Ascoli e la sua provincia, almeno la parte più interna (quella montana, per intenderci), hanno subìto, nel 2016-17, l’evento catastrofico del terremoto. Anche l’intera area dei Monti Sibillini e i paesi alle pendici del massiccio calcareo, nel Maceratese e in Umbria, hanno sofferto pesanti guasti. I danni materiali sono stati enormi e le ferite non sono ancora rimarginate; quelli sociali sono stati, forse, peggiori, con lo spopolamento e l’abbandono di case e paesi.
Il giornalista Paolo Rumiz aveva còlto, con un lapidario commento, l’essenza di questi luoghi: «Gli Appennini sono arcani, spopolati, dimenticati». È una frase scritta nel 2007 (ne I monti naviganti), in anni ben lontani dagli eventi sismici… figuriamoci ora che Castelluccio e altri borghi dei Sibillini sono diventati “terre del silenzio”.
Sono questi i pensieri che vengono in mente quando si percorre la strada tortuosa per raggiungere il luogo descritto nell’articolo. Da Ascoli Piceno si arriva ai Piani di Castelluccio, località dell’evento naturale del quale ci stiamo occupando, percorrendo la Salaria; arrivati a Trisungo, frazione di Arquata del Tronto che si allunga a ridosso delle strette golene del fiume, una deviazione sale per Borgo, Pretare e Forca di Presta, attraversando un paesaggio che offre il desolante spettacolo delle cosiddette “terre mutate” dal terremoto. Da Forca di Presta, tradizionale luogo di sosta degli escursionisti per l’attacco del sentiero per l’area sommitale del Monte Vettore e il Lago di Pilato, in pochi chilometri si scende ai Piani di Castelluccio (Pian Grande, Pian Piccolo, Pian Perduto e Valle San Lorenzo), in Umbria.
Ai piani carsici di Castelluccio (i secondi della Penisola per estensione, dopo la Piana del Fùcino), Cronache Picene ha dedicato un articolo qualche tempo fa (leggilo qui), nel quale essi venivano analizzati dal punto di vista geologico. In precedenza, l’area era stata esaminata dal punto di vista storico-geografico (leggi qui l’articolo). In questo pezzo, vediamo di completarne la descrizione, trattando l’aspetto per il quale sono più famosi, la fioritura primaverile-estiva.
Prima, però, una breve digressione relativa all’economia di questi luoghi, inseriti in un contesto paesaggistico formidabile ma penalizzati dall’isolamento e, ultimamente, dagli eventi sismici.
È stata, per secoli, un’economia basata sull’agricoltura di autoconsumo, della pastorizia e dei prodotti del bosco (legname), penalizzata da forti movimenti migratori verso le città: un evento, quest’ultimo, che ha di fatto “alzato” l’età media dei residenti. Col tempo, il turismo (estivo e invernale) e la spinta legata al settore agroalimentare (le “lenticchie di Castelluccio, i salumi di Norcia…) e allo sport (equitazione, volo a vela…) hanno reso più vivace l’economia dei borghi che, però, rischia ora un nuovo, lungo stop per i danni del sisma.
È bene ricordare che queste sono terre abituate ai movimenti di superficie: la memoria recente dei terremoti può partire dal 1943, poi ’53, ’55, ’62, ’72: un lungo rosario di scosse fino ad arrivare a quelle recenti (2016 e ’17). Costante degli eventi, la resilienza e la caparbietà degli abitanti, la volontà a ricostruire sul luogo, alla ricerca di un “paesaggio ritrovato”.
Ma torniamo all’argomento dell’articolo.
I Piani di Castelluccio sono un’area pianeggiante di circa 1.300 ettari di estensione, un panorama grandioso di prati destinati al pascolo ovino che qui era fiorente; manca totalmente la vegetazione arborea, sostituita da prati falciabili, a perdita d’occhio. L’uniformità dello scenario è spezzata dalla geometria degli appezzamenti, coltivati soprattutto a lenticchia (per i locali, la lenta), caratteristico legume di piccole dimensioni che ha ormai conquistato una meritata fama internazionale. Alla fine della primavera, l’altopiano è la sede di un evento naturalistico importante, che prende il nome di Fiorita: per diverse settimane, l’omogeneità dei pascoli è rotta da un collage di colori, una vera e propria orgia cromatica.
L’area costituisce l’ambiente ideale per numerose specie vegetali che dànno vita, nella tarda primavera, a una fantastica fioritura multicolore. Ricordiamo che l’aggettivo “fantastico” deriva dal termine della tarda latinità phantasticum, a sua volta derivato dal greco phantasìa, immaginazione: la fioritura di Castelluccio, al suo apice, è realmente uno spettacolo per gli occhi e la mente.
L’argomento era stato trattato in un precedente articolo: «Per quanto riguarda i colori, c’è il giallo della senape, della colza e dei ranuncoli, il rosso dei rosolacci, il bianco delle margherite, della camomilla e dei narcisi, l’azzurro e il blu dei fiordalisi e delle viole, il blu profondo delle genzianelle, il violetto dei più prosaici trifogli e delle acetoselle. Ma, in fondo, non è importante conoscere il nome delle piante per godere dello spettacolo dei pattern colorati che si ripetono all’infinito per regalare emozioni indelebili».
Della Fiorita di Castelluccio hanno scritto in tanti ed è pleonastico farlo qui, di nuovo; oltre tutto, non serve essere botanici per apprezzare la fioritura, uno spettacolo stupendo, un vero must del territorio. Come per tutte le manifestazioni naturali “veraci”, non c’è una data precisa per assistere all’evento: la fioritura contemporanea delle tante specie dipende dai fattori climatici dell’anno (temperatura dell’aria, precipitazioni…); di solito, si manifesta nella seconda decade di giugno ed è “annunciata” dal passaparola sul web e dalle webcam poste in loco.
Per gli amanti dell’armocromìa, ecco l’ordine di apparizione dei vari colori (solo i principali): il primo a manifestarsi è il giallo cromo della senape, seguito dal rosso squillante dei papaveri, moderato dal bianco vivo (e dal giallo spento) delle margherite; poco più tardi, l’azzurro dei fiordalisi.
Prima di “lasciare la parola” alle immagini a corredo dell’articolo, riportiamo qui alcune frasi di Romano Cordella (limitandoci a quelle relative alla fioritura dei Piani) che, pur nella freddezza dell’elenco, dànno idea della ricchezza floristica dei piani carsici e della grandiosità dell’antèsi.
«Nel mese di giugno la distesa dei prati si riveste di un variopinto manto d’erbe e di fiori che richiama numerosi visitatori. Innumerevoli le specie floristiche censite nel massiccio dei Sibillini (circa 1800 taxa), meta di erboristi dal Medioevo in poi: violette, narcisi, tulipani selvatici, genziana napoletana, genzianella, ranuncoli, papaveri, asfodeli, peonie; e ancora, sassifraghe, liliacee, crucifere, mughetto, mirtillo nero, uva orsina… (Norcia e territorio, 1995)».
Ovviamente, non va tralasciata la componente faunistica. Seguiamo ancora il Cordella nella descrizione della fauna dei Sibillini: «… con esemplari di aquila reale, coturnice del Vettore, poiana, falco, sparviero, astore, gheppio, vipera dell’Orsini, lupo appenninico, gatto selvatico, martora, istrice, cinghiale […] Comune la volpe, la lepre, il tasso la donnola e la talpa (la catòpa per i locali) cui si deve l’incessante lavorìo sotterraneo che costella di una miriade di minuscoli crateri la superficie del piano».
In conclusione, possiamo affermare che le peculiarità naturalistiche, insieme al bellissimo paesaggio e alle caratteristiche geomorfologiche (inghiottitoi, doline…) rendono l’area un soggetto ecologico di qualità, meritevole di una visita attenta, non superficiale.
A questo proposito, ricordiamo le parole di René Schneider, viaggiatore francese amante del paesaggio umbro che, ai primi del Novecento, scrisse che «La bellezza si sprigiona a poco a poco dalle cose: essa si nega a chi passa, e svanisce».
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