“Il mistero del Verde”: Manfredi di Svevia e il Castellano

LEGGENDA narra che dalla base di una delle torri del castello di Macchia partiva un cunicolo lunghissimo che attraversando il massiccio della Montagna dei Fiori arrivava alla valle del fiume. Il Re avrebbe usato questo passaggio segreto per andare a visitare, a Castel Trosino, una "regina" di origine longobarda della quale era innamorato, di cui ancora oggi esiste l'abitazione
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I ruderi del Castello di Macchia (Castel Manfrino) che dominano la valle del Salinello come appaiono da uno dei sentieri della Montagna dei Fiori

 

di Gabriele Vecchioni

(testo e foto dell’autore)

 

«Su per i fianchi dirupati della Montagna dei Fiori e del Monte di Rosara, tra i quali rumoreggia profondo sotto la vena di S. Giorgio e quella di S. Marco il Castellano, le cui acque limpide e verdi anche qui localizzarono la leggenda che lungo le sue sponde (lungo il Verde) fossero sepolte le ossa di Manfredi… (A. Crivellucci, 1892)»

 

Il mistero al quale si fa riferimento nel titolo dell’articolo è quello relativo alla figura di Manfredi di Svevia, della dinastia degli Hoenstaufen, figlio naturale (poi legittimato dalle nozze in extremis poco prima della morte della madre) che l’imperatore Federico II ebbe dalla relazione con Bianca dei conti Lancia; Manfredi sarebbe divenuto re alla morte di Re Corrado (era reggente per conto del nipote Corradino).

 

Il testo continua dopo l’immagine

Nella carta di Odoardo Odoardi de’ Catilini (Topografia del Stato d’Ascoli della Marca con suoi confini, 1680) è evidenziata la “via del Salinello”, controllata dal Castello di Macchia

 

Si è sempre favoleggiato sulla presenza fisica di Manfredi nelle nostre zone, in particolare dopo la costruzione del castello di Macchia (articolo precedente, leggilo qui), a chiusura della vicina valle del Salinello. Il maniero si trova su un costone roccioso sovrastante il paese di Macchia da Sole, tra il torrente Salinello, proveniente dall’area del Monte della Farina, e il Fosso Rivolta, che scende dalle Cannavine, alla base della Montagna dei Fiori.

L’incoronazione di Manfredi di Svevia come Re di Sicilia (nel 1258) in una miniatura della Nuova Cronica di Giovanni Villani (prima metà del sec. XIV)

 

Sulla linea di confine settentrionale del regno svevo erano allineati i castelli di Pietralta, Macchia, Rocca San Nicola, Civitella del Tronto, Rocca di Morro e Colonnella. L’appartenenza a tale linea difensiva dava al Castello di Macchia una grande importanza strategica, un fatto che ha favorito la fioritura di racconti, tra storia e leggenda, che ancora lo caratterizzano (Fernando Aurini ha scritto, nel 1951, che «… è passato qui re Manfredi, e la sua anima èrra ancora, a notte, senza pace, tra le rovine del suo castello alla Sagannàta»).

 

Una storia narra che dalla base di una delle torri del castello partiva un cunicolo lunghissimo che attraversando il massiccio della Montagna dei Fiori arrivava alla valle del Ca­stellano. Re Manfredi avrebbe usato questo passaggio segreto per andare a visitare, a Castel Trosino, una “regina” di origine longobarda della quale era innamorato: nel borgo esiste anco­ra una casa medioevale detta Casa della Regina o Casa di Manfrì; a questo proposito, il nome deriva da un diminutivo dialettale del nome di Manfredi, secondo lo schema Manfredi, Manfredino, Manfrino, nome dato al castello di Macchia).

La battaglia di Benevento, miniatura da Grandes Chroniques de France (1350, BNF)

 

Una breve digressione riguardo al luogo. Nell’immaginario collettivo, Castel Trosino viene sempre collegato al Medioevo. In realtà, il borgo ha una storia antica e non limitata all’ “Età di mezzo”: il territorio ha visto passare uomini del Neolitico, Piceni, Romani, Bizantini, Goti, Longobardi; qui hanno vissuto monaci, briganti, soldati del papa, piemontesi, fino ad arrivare ai giorni nostri.

 

La poetica vicenda sopra descritta viene tramandata da una te­nace tradizione popolare che avvolge in un alone leggendario anche la morte del re e gli accadimenti immediatamente suc­cessivi.

 

Biondo era e di gentile aspetto… Così Dante Alighieri, nel 1317, descrive Manfredi (nella Divina Comme­dia, al Canto III del Purgatorio), quando immagina che il Re di Sicilia parli della sua morte, avvenuta nel febbraio dell’anno 1266, nella battaglia di Benevento tra le sue truppe e quelle francesi di Carlo d’Angiò. Rileggiamo i versi del Poeta: «L’ossa del corpo mio sarieno ancora/ In co’ del ponte, presso a Benevento,/ Sotto la guardia della grave mora/ Or le bagna la pioggia e move il vento/ di fuor dal regno, quasi lungo ‘l Verde,/ dov’e’ le trasmutò a lume spento».

Il borgo si riflette nelle acque verdi del Castellano. Il colore giustifica il nome con il quale era conosciuto il corso d’acqua nel Medioevo

 

Il re svevo, probabilmente tradito dai suoi baroni, entrò in battaglia quando le sorti della stessa già volgevano a favore degli Angioini, lo fece nonostante avesse avuto un sinistro presagio: nel momento in cui in­dossava l’el­mo, l’aqui­la d’argento – il simbolo im­periale che lo sormontava – si era staccata, cadendo nel­la polvere. Manfredi morì, dopo aver combattuto con valentìa. Il suo corpo nudo, ritrovato tre giorni dopo, fu seppelli­to senza onoranze religiose (Man­fredi era scomunica­to). Gli stessi Angioini, pe­rò, riconobbero il valore del re e vollero onorarlo: secon­do un’antica u­sanza funebre nobiliare, ognuno dei baroni di Francia pose sul luogo della deposizione una pietra, fino a in­nalzare un tumulo di sassi (la mora).

 

In seguito, Papa Clemente IV, con un odio tenace nei suoi con­fronti, ordinò di traslare il corpo del sovrano dal luogo della sua sepoltura a un’altra località sconosciuta, per evitare che diventasse mèta di pellegrinaggio. L’operazione fu svolta di notte, senza onoranze funebri (sine cruce sine luce, come era regola per gli scomunicati, seppelliti fuori della terra consa­crata dei cimiteri, e trasportati a ceri spenti e capovolti), sot­to la supervisione del cardinale Bartolomeo Pignatelli, arcive­scovo di Cosenza. Questi ultimi episodi non sembrano avere veridicità storica ma furono sfruttati da Dante per rimarcare la bontà divina (Manfredi sarebbe stato perdonato dal Padreterno nonostante la scomunica comminatagli dal Papa).

Castel Trosino. Sullo sfondo, il Monte dell’Ascensione

 

Fiumi d’inchiostro sono stati versati per dimostrare che la lo­calità in cui fu gettato il corpo di Manfredi fosse un sito della Valle Castellana. Il verso 131 della terzina del Canto III del Purgatorio dà un’indicazione che può adattarsi a Castel Trosi­no che, appunto si trovava «di fuor del regno [di Napoli] e «quasi lungo ‘l Verde [il torrente Castellano]». Altre interpreta­zioni identificano, però, il “Verde” con il Garigliano. Sempre nella Di­vina Commedia (al Canto VIII del Paradiso) il Poeta insiste e indica i confini settentrionali del Regno di Napoli («… da ove Tronto e Verde in mare sgorga»).

 

Alcuni autorevoli autori, con erudite elucubrazioni, hanno voluto vedere nel dantesco fiume Verde il Castellano. Il Tronto e il Castellano-Verde costitui­vano, in effetti, il confine tra Regno di Napoli e Stato della Chiesa e il principale affluente del Tronto, il Castellano, ha la peculiarità di avere le acque di un colore assai vicino al verde, per la presenza nell’alveo di sor­genti sulfuree.

La Casa della Regina (o de Manfrì) all’interno del borgo

 

Il Castellano era conosciuto anche con l’idronimo “Verde”, nome presente in un’opera di Giovanni Boccaccio che scrisse (sec. XIV) che il Verde, affluente del Tronto, («Viridis fluvius… in Truentum cadens»), divideva il territorio piceno da quello abruzzese. È bene precisare che per alcuni il Verde potrebbe essere il torrente Marino, anch’esso affluente del Tronto, vicino al confine e con «aquae viridis» (Colucci, 1795).

 

Nel 1889, il fermano Giovanni Battista Carducci curò il Capitolo “Dintorni” della “Guida della Provincia”. Nell’occasione, scriveva «… Al piede di questo sasso [il masso su cui sorge Castel Trosino, NdA] sgorgano fonti di acque minerali congeneri a quelle che troveremo ad Acquasanta, ma prive del calore che rendono queste così preziose; esse si uniscono al fiume a mano a mano ne va qua e là accogliendo, tantoché le sue acque tingendosene ricevettero il terzo nome di Verde [dopo Castellano e Suino, NdA], col quale è ricordato da Dante allorché parla del disseppellimento oltre i confini dello stato papale il disperso carcame del misero Manfredi».

 

In una nota a pie’ di pagina della “Guida”, il Carducci però precisa: «Avvertiamo una volta per sempre i lettori che la leggenda delle ossa di Manfredi si estende ad Ascoli, a Folignano, a Maltignano… e il nome del Verde si dà ora al Marino, ora al Castellano. Contro questa leggenda pare accertato che il Verde dantesco sia il Liri».

Il lago di Casette (inesistente ai tempi di Manfredi) è formato dalle acque “verdi” del Castellano (foto A. Palermi)

Per concludere con le citazioni, leggiamo questa di Enrico Dehò (Paesi Marchigiani, 1910) che si riferisce al Marino, che scorre vicino a Folignano: «… il torrente Verde ove – secondo alcuni commentatori di Dante – si vuole che il vescovo di Cosenza gittasse le spoglie di re Manfredi nipote di Costanza imperatrice».

 

Per quanto riguarda le risorgive che dànno il colore alle acque, riprendiamo la spiegazione da un precedente articolo (leggilo qui): «A Ca­stel Trosino, [il Castellano] riceve l’apporto delle “sorgenti salmacine”, acque solfo­rose che i locali chiamano “acqua puzza” per il loro odore caratteristico e che dànno al corso d’acqua una caratteristica colorazione. Una breve nota relativa alle “acque salmacine”: l’attributo deriva da Salmàcia, nome di una nin­fa dei Sabelli, antico popolo dell’Italia cen­trale. Le ninfe erano divinità pagane minori che, sotto forma di giova­nette nude e invisibili ai comuni mortali, popolavano boschi, monti e sorgenti».

Una delle fonti Salmacine

 

Vengono addotte motivazioni politiche al fatto che la sepoltura clandestina di Manfredi sia avvenuta proprio nel territorio di Castel Trosino. Il Papa Clemente IV avrebbe fatto rimuovere le spoglie del re per evitare che la sua tomba diventasse un punto di riferimento per una eventuale rivolta popolare; il posto più adatto sarebbe stato proprio la zona del Castello, lontana dalla città del Meridione, presumibilmente favorevoli a Re Manfredi, e vicina ad Ascoli, ostile agli Svevi (le truppe dell’imperatore Federico II avevano devasta­to la città nel 1242, dopo un lungo assedio).

 

Conclusioni. Mancano documenti certi sulla presenza di Manfredi (o dei suoi resti) nelle nostre zone; c’è solo la tradizione popolare, la leggenda a ricordarlo. Le leggende sono “più vere della verità” perché nascono da desideri nemmeno tanto occulti della gente, per dare prestigio e rinsaldare il senso di comunità; la loro origine, di solito prende spunto da un fatto, un evento anche inspiegabile, realmente avvenuto.


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