di Luca Capponi
(foto di Simone Corazza)
C’è un momento, in ogni concerto di Brunori Sas, in cui tutto si ferma. Non la musica, non le luci – quelle restano, danzano, accompagnano. Ma si ferma qualcosa dentro: come se per un attimo riuscissimo a guardarci allo specchio senza giudicarci. Con la stessa malinconica tenerezza che Dario riserva alle sue storie, alle sue note, ai suoi personaggi un po’ così, che a volte non ce la fanno, ma resistono lo stesso.
Ieri sera, in una Piazza del Popolo gremita, Fermo (con l’organizzazione sinergica tra Comune e Best Eventi) ha accolto l’artista calabrese con un sold out da respiro corto e cuore largo. Era atteso, attesissimo. E lui – come sempre – non ha tradito. Perché Brunori non è mai solo un concerto: è un incontro. Un ritrovarsi.
«Siete tantissimi, significa che da queste parti abbiamo seminato bene – scherza dal palco – è bellissimo essere qui, sembra di essere nel cortile di casa, con la gente che ti ascolta affacciata al balcone».
C’è anche chi convola a nozze e…lo invita con il più classico dei cartelloni. Simone e Mery arrivano da Teramo per invitarlo al loro matrimonio. Eccome se ha seminato bene il nostro San Brunori.
La scaletta, invece, è una carezza collettiva, un viaggio che attraversa quasi vent’anni di musica, un canzoniere unico che non lascia spazio a pausa nelle due ore di live: da “Italian Dandy” e quel suo vivere bohemien a “Canzone contro la paura” (“Perché a furia di pensare e ripensare e ripensare ancora, forse non si pensa più…”), da “Lamezia Milano” allo struggente piano solo di “Kurt Cobain”, da “Lei, lui, Firenze” fino a “Come stai”, dedicata a Giuseppe Amabili – il tecnico del suono originario di Cupra Marittima scomparso lo scorso anno, la cui madre è tra il pubblico, commossa.
Poi l’ultimo singolo, “L’albero delle noci”, presentato al Festival di Sanremo e accolto come una ennesima conferma della sua maturità artistica, e infine quel piccolo inno generazionale chiamato “Guardia ’82”, che lui stesso introduce col solito piglio scanzonato: «È la mia Despacito». Ironico, disarmante, geniale.
Non poteva mancare “La verità”, che resta, negli anni, un piccolo manifesto di fragilità lucida: “La verità è che ci fa paura l’idea di scomparire…”. Un coro unico, una piazza intera che si scioglie sotto le parole di una canzone che è già memoria condivisa.
«Il pubblico brunoriano è un po’ masochista – sorride – soprattutto quella parte che mi segue dall’inizio. Un pubblico che, come me, non sarà mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di com’è». Applausi, risate, qualche lacrima. Il solito incantesimo. La bellezza che ci salverà.
Brunori parla, suona, ride. Non fa il cantautore, è un cantautore. Uno di quelli veri, che ti raccontano le cose mentre te le fanno vivere. Che sanno parlare d’amore senza risultare smielati, di morte senza risultare pesanti, di politica senza diventare ideologici. Fermo se ne va a casa col cuore pieno e la testa leggera. Non capita spesso. Ma quando capita, è perché uno come Brunori è passato di lì.
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