di Gabriele Vecchioni
«Io non mi volsi, ma l’amarulenta/ fragranza della linfa dalla fresca/ piaga mi giunse alle narici, vinse/ l’odor muschiato dei vermigli fiori» (G. D’Annunzio, L’oleandro, Alcyone, 1908)
Una delle piante più comuni che si incontrano lungo le nostre strade e nei giardini (specialmente in quelli vicini alla costa, dove il clima è più favorevole) è l’oleandro (Nerium oleander nella sua nomenclatura binomia, quella dei botanici, per intenderci). Vediamo di conoscerla più da vicino tralasciando le caratteristiche tecniche, peraltro facilmente ricavabili in questa nostra era digitale.
Cominciamo dalla famiglia botanica, quella delle Apocinacee (dal latino Apocynaceae) che comprende specie erbacee e legnose, anche rampicanti, con tubi laticiferi. I tubi laticiferi sono formati da cellule allungate con grandi vacuoli contenenti un liquido, il cosiddetto latice, una sospensione eterogenea in fase acquosa (è una definizione tecnica) che può contenere diverse sostanze.
Il primo termine della nomenclatura binomiale (Nerium) viene dal greco nerón (acqua) perché l’oleandro è una pianta che vegeta spesso lungo fiumi e torrenti.
L’oleandro è una pianta sempreverde, con portamento arbustivo che sopporta potature anche drastiche che possono “trasformarlo” in maniera da assumere portamento arboreo (con gli anni può arrivare anche a sei-otto metri di altezza (!). Quello che conosciamo noi, però, è molto più basso; lo troviamo un po’ dovunque, soprattutto lungo i bellissimi lungomari delle nostre città e cittadine costiere.
Tutti conosciamo le sue magnifiche, prolungate fioriture (è una specie rifiorente, cioè che fiorisce più di una volta all’anno): basta passeggiare per il lungomare di San Benedetto del Tronto per essere immersi in un mare di colori: rosa (il colore “classico” dei fiori dell’oleandro), bianco, rosso e, negli ultimi tempi, anche giallo). Ulteriore caratteristica che rende la pianta attraente è quella delle foglie, opposte e lucide, riunite in verticilli.
Siamo abituati a considerare l’oleandro come una specie ornamentale, data la sua ubiquitaria presenza nei nostri viali, giardini e balconi, ma in realtà è una specie che, in Italia, è possibile trovare anche allo stato spontaneo, senza l’intervento antropico per la sua diffusione. L’oleandro è un elemento della flora mediterranea (è presente nel Lauretum) ed è facile incontrarlo sui greti aridi delle fiumare calabresi, in Sicilia e nelle forre della Sardegna ma anche sulle rive del Lago di Garda; nell’area del Gennargentu sono diffuse boscaglie di oleandro in zone aride con suoli sassosi ma non degradate dall’intervento umano.
A questo proposito, l’insigne botanico Valerio Giacomini scrisse (1970): «È un’apparizione stupenda anche quando si tratta solo di modesti cespugli fioriti; possiamo immaginare cosa potevano essere gli antichi boschi di oleandro che alcuni viaggiatori dicono di aver visto molto tempo addietro sopravvivere ancora in alcune vallate della Spagna mediterranea, ma che certo esistevano anche da noi in qualche tratto delle più vaste fiumare in Sicilia o della Calabria jonica».
Il Lauretum è la zona fitoclimatica più calda nella classificazione di Mayr-Pavari, che prende il nome dall’alloro (Laurus nobilis) e si estende su circa il 50% del territorio italiano. È più frequente nel versante tirrenico che su quello adriatico, dove arriva al 42° parallelo (latitudine Nord): in realtà, l’alloro allo stato spontaneo si trova anche nel Parco del Conero (più o meno al 43° parallelo).
L’oleandro è una pianta “importante”, coltivata dai Greci e dai Romani (è raffigurata in affreschi di Pompei) e anticamente aveva il nome di rododafne perché riuniva la bellezza coloristica della rosa e il portamento dell’alloro («Brilla di rose il lauro trionfale!»); questo nome è conservato nel termine francese laurier-rose che unisce, appunto, le due caratteristiche. In greco è traslitterato in picrodafni dove picro (amaro) ricorda un’altra delle caratteristiche della pianta e il secondo termine si associa all’alloro (per via della leggenda di Dafne trasformata in alloro per sfuggire all’eccitazione del dio Apollo).
Ogni parte della pianta di oleandro è tossica perché contiene glucosidi cianogenetici, una classe di composti che possono rilasciare il pericoloso acido cianidrico quando subiscono idrolisi (scissione in presenza di acqua), un processo chimico dovuto all’azione di enzimi specifici, presenti anche nella flora intestinale umana. Per la pianta la liberazione di acido cianidrico, una sostanza altamente nociva, è un meccanismo di difesa; per l’uomo, il pericolo è relativo poiché l’oleandro non rientra nella dieta umana e le sue foglie non si usano certo per l’insalata. Tra gli animali, il pericolo maggiore lo corrono i bovini e gli equini (in alcune zone è soprannominato “ammalasino”).
Stiamo parlando dell’oleandro ma, riguardo all’acido cianidrico, ricordiamo che esso rientra nella lunga lista di sostanze tossiche presenti nel fumo di sigaretta e viene liberato nell’ambiente con la combustione della stessa, cioè fumando.
Ma torniamo alla nostra pianta. Vediamo come l’oleandro è stato considerato nel corso dei secoli.
L’oleandro, citato da Senofonte (sec. V AC) e descritto da Teofrasto (secc. IV-III AC) si considera originario della Colchide, area del mar Nero, corrispondente all’attuale Georgia occidentale; in realtà, l’affermazione non è certa, l’area di diffusione dell’oleandro è vastissima e arriva dal bacino del Mediterraneo fino alla fascia temperata del Giappone.
Ai primi del Novecento, Gabriele D’Annunzio inserì la lunga ode L’oleandro nella sua fortunata raccolta Alcyone e, più tardi, lo spagnolo Federico Garcìa Lorca dedicò alla pianta una sua composizione. Anche il Premio Nobel (1959) Salvatore Quasimodo ha dedicato versi all’oleandro («oscuri profumi/ perde la sera d’aranci, o d’oleandri, Isola, 1932»). Già nel Medioevo, però, l’oleandro era stato oggetto d’attenzione “poetica”, derivata dal fatto che nei vangeli apocrifi si narra che dal bastone (un oleandro secco) di Giuseppe, futuro padre putativo del Salvatore, spuntarono dei fiori: da quel momento la pianta fu denominata “mazza di San Giuseppe”.
La tossicità dei frutti è conosciuta fin dall’antichità; Plinio scrisse che «l’oleandro uccide i serpenti» e causa intorpidimento negli animali selvatici e descrisse un miele del Ponto velenoso perché le api suggevano il nettare dei fiori dell’oleandro.
Per concludere, la forte diffusione dell’oleandro nei viali e nei giardini del Paese – dalle Alpi alla Sicilia – e nelle case (la pianta vegeta bene anche in vaso), si deve all’alto valore decorativo dei suoi fiori (la pianta è in fioritura continua per tutta la bella stagione) e colora le tristi vie cittadine, ormai tutte cementificate) e alla sua rusticità: non c’è lungomare (adriatico o tirrenico che sia) che non abbia le sue piante di oleandro.
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