di Federico Ameli
Se da un anno a questa parte non si fa altro che parlare di Coronavirus, capita fin troppo spesso che, contrariamente alla buona norma, a ergersi tra i protagonisti del dibattito culturale e sanitario non siano però quelli con le carte più in regola per prendere la parola.
Gli addetti ai lavori e le loro qualificate opinioni sono infatti costretti a vedersela con un tam tam mediatico in cui generalmente la spettacolarizzazione del dramma spadroneggia quasi incontrastata e le valutazioni ponderate e di carattere prettamente scientifico faticano a farsi largo tra una fake news e l’altra.
La copertina del libro
Non è facile, di questi tempi orientarsi nei meandri dell’informazione sanitaria, ma per chi volesse approfondire la questione, tra i tanti libri a tema ci sentiamo di consigliare quello scritto da un giovane e brillante medico sambenedettese, che fornisce la sua testimonianza autentica e ben lontana dalle luci dei riflettori ripercorrendo le prime, concitate, fasi dell’emergenza Covid.
Stiamo parlando di Francesco Romani, sambenedettese classe 1993, che dopo la laurea in Medicina conseguita nel 2018 alla Sapienza di Roma ha deciso di dedicarsi allo studio delle malattie infettive, inseguendo il sogno nel cassetto di diventare infettivologo.
«Un mestiere difficile, che paga male e che espone in prima persona a rischi biologici non indifferenti». È lo stesso Francesco ad ammetterlo sulla quarta di copertina del suo “Percorso sporco. Cronache dal reparto Covid-19”, edito lo scorso novembre da Albatros. E a chi, per sua fortuna, non abbia molta familiarità con la vita in corsia, l’autore offre prontamente un’accurata spiegazione del titolo.
«Viene chiamato “percorso sporco” – dice Romani – ed è segnato da una striscia rossa a terra. È il percorso che i pazienti positivi al Covid sono tenuti a seguire all’interno dell’ospedale. Ovviamente, oltre il significato concreto, c’è un’allusione metaforica che fa riferimento alle conseguenze della pandemia, alle ferite lasciate nelle famiglie dei deceduti e nella vita delle persone che invece ce l’hanno fatta».
Nelle quattordici stazioni di cui si compone il libro, il dottor Romani rievoca il calvario – il nome scelto per i capitoli è tutt’altro che casuale – vissuto all’alba dell’emergenza sanitaria, passando in rassegna alcune delle esperienze più significative dei suoi pazienti al Policlinico Umberto I di Roma, dove il giovane medico sambenedettese ha iniziato a prestare servizio ancor prima che il Coronavirus finisse inevitabilmente per stravolgere per sempre la routine quotidiana.
«Il libro tratta delle prime settimane della pandemia, quando il nemico da combattere era in larga parte sconosciuto e un po’ tutti noi brancolavamo nel buio e nella paura di maneggiare un materiale nuovo -spiega-. Mentre dai balconi d’Italia si cantava e si issavano bandiere nella speranza di esorcizzare la noia della segregazione domestica, i pazienti a decine morivano soli in stanze di isolamento».
«Con i mesi abbiamo acquisito le conoscenze e la confidenza necessaria ad affrontare al meglio questa situazione emergenziale -ribadisce Romani-. I morti sono diminuiti, le strutture rese più efficienti e il personale più numeroso e preparato. Ma con questo è subentrato il disincanto che sta portando molti ad abbassare la guardia di fronte a un virus ancora altamente patogeno e letale. Penso sia questo adesso il grande tema di salute pubblica su cui urge sensibilizzare le persone».
A giudicare dalle immagini – nostrane e non – del weekend (leggi l’articolo), è evidente come anche a distanza di un anno l’accorato appello degli addetti ai lavori fatichi a far breccia nei cuori della fascia di popolazione più sensibile al richiamo di ciò che resta della movida di un tempo. Tuttavia, basta sfogliare appena qualche pagina per catapultarsi in una realtà che agli occhi di molti appare lontana, ma in cui, nella lotta tra la vita e la morte, l’aperitivo è comprensibilmente l’ultimo dei problemi.
«Tutto è nato dal bisogno di dare una testimonianza a quei primi mesi di pandemia – prosegue Romani -, in cui un po’ tutti barcollavamo ubriachi di fronte all’ignoto. Ecco, la finalità dell’opera è proprio quella di testimoniare un momento storico di grande drammaticità senza cadere in facili trappole della retorica».
In casi come questo, infatti, il risvolto tragico e banale è sempre dietro l’angolo, ma Francesco preferisce non abboccare a tentazioni sensazionalistiche, mantenendo la lucidità necessaria per tracciare un bilancio della sua esperienza in corsia, senza per questo scadere nel dettaglio a effetto.
Eppure, specie nelle prime settimane di emergenza, non sono certo mancati momenti di sconforto di fronte a un nemico sconosciuto e probabilmente più temibile del previsto. Nonostante l’iniziale smarrimento, però, in più di un’occasione dal resoconto di Romani emerge la forte empatia venutasi a creare tra medico e paziente, capace di superare ogni differenza generazionale e di infondere una sfumatura di umanità a ciò che così umano, in fondo, non è.
«Per quanto riguarda l’esperienza vissuta fin qui, posso dirti che questa situazione ha apparato le differenze che c’erano tra noi-aggiunge-. Mi spiego meglio: di fronte a una nuova malattia siamo tutti ignoranti allo stesso modo, dal più esimio luminare virologo alla matricola di Medicina. Durante i primi giorni nessuno sapeva bene cosa fare, ma col tempo abbiamo imparato e siamo cresciuti insieme».
Come giustamente fa notare l’autore all’interno del testo, «neanche la morte porta pace di questi tempi» e «l’uomo è più solo che mai». A ormai un anno di distanza dall’avvento del Covid nel nostro Paese, l’unica certezza resta quella della necessità di contrastare l’avanzata del virus cercando, ognuno nel suo piccolo, di fare la propria parte. Anche perché, di verità assolute non sembrano essercene, neppure per gli addetti ai lavori.
«Credo che un buon medico sia tenuto a dare informazioni scientificamente provate piuttosto che pareri personali -è la conclusione-. E, ad oggi, certezze scientifiche sull’evoluzione del quadro epidemiologico non le ha nessuno. Il resto sono parole al vento».
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