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Curva Sud del Ballarin: «Un vuoto urbano che deve essere mantenuto vivo»

SAN BENEDETTO - Sul caso dell'ormai definitivo ex stadio, ecco l'intervento dell'architetto sambenedettese Franco Mercuri. «Prima di pensare a (e procedere con) un qualsivoglia progetto, occorrerà mantenere vivo quel vuoto, bisognerà attivarsi per fare in modo che questo spazio torni ad essere appetibile per i cittadini. Che riacquisti la propria attrattività»
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di Franco Mercuri

(architetto)

 

Il vuoto urbano, nelle nostre città, viene sempre (e spesso erroneamente) visto come uno spazio da riempire ad ogni costo.

Come una mancanza di senso a cui si debba necessariamente porre rimedio con un progetto; un progetto che parte quasi sempre come un “vorrei ma non posso” per finire con un “qualcosa che è meglio di niente” ma che, di fatto, vale niente.

La storia delle evoluzioni dei vuoti urbani è spesso sempre la stessa e parte sempre da un horror vacui che attanaglia ed offusca le menti di tutti, in primo luogo le menti degli amministratori delle nostre città.

Ogni volta, per ogni vuoto urbano, parte il teatrino dei progetti, dei processi e degli investimenti. Ci si scontra, ci si incontra, si tifa per una soluzione, poi per un’altra. Ci si accapiglia. Demolizione sì, demolizione no; ricostruzione sì, ricostruzione no.

E in questa serie infinita di diatribe, di scontri, incontri e resistenze, si perdono il senso della questione, la capacità di valutazione e si continua a precipitare nell’insensatezza di proposte e soluzioni possibili ma inefficaci.

Dal 1985, il manufatto stadio Ballarin ha cessato la sua funzione per cominciare ad assumere la parvenza di un vuoto urbano; una lacerazione del tessuto urbano vissuto e partecipato.

È una lacerazione che va ricucita, certo. Ma non bisogna farsi entusiasmare troppo dai buoni intenti, dalle fantastiche pianificazioni e dai progetti redatti da fuoriclasse dell’architettura.

Perché la rigenerazione e la riqualificazione urbana nascondono problemi che la progettazione sovente sottovaluta. E di fallimenti, in tale ambito, è pieno il mondo.

Quando si comincia a ripensare a come ridare vita a questi spazi non più vissuti e partecipati, si commette sempre l’errore di sottovalutare il Tempo.

Qualsiasi progetto ha bisogno di tempo. Un tempo per essere pensato, un tempo per essere elaborato e perfezionato, un tempo per essere presentato, un tempo per essere approvato, un tempo per essere finanziato. Infine, un tempo per essere realizzato.

E noi e la nostra burocrazia, è risaputo, non siamo certo campioni di velocità…

Ma il Tempo deve necessariamente essere considerato più di ogni altro aspetto. Perché un progetto che richiede anni per essere realizzato deve tener conto anche dei cambiamenti che si potranno verificare in quegli stessi anni.

E ancor prima del tempo di realizzazione, bisogna tenere conto di un altro tempo: il tempo dell’attecchimento.

È il tempo che passa dal momento in cui un progetto è finito e realizzato al momento in cui lo stesso progetto comincia ad essere fruito e a generare benefici.

Ma quando, per circa 40 anni una città, una collettività, ha smesso di vivere uno spazio, ha smesso di percepirlo, trasformandolo in una mera zona di transito, questo tempo dell’attecchimento potrebbe rivelarsi molto lungo. E certamente, la sua consistenza sarà inversamente proporzionale alle qualità ed alla utilità del progetto. Più il progetto sarà debole, più il tempo dell’attecchimento si allungherà, rischiando di tendere all’infinito. Rischiando il fallimento del progetto ormai realizzato.

Per cui, prima di pensare a (e procedere con) un qualsivoglia progetto, occorrerà mantenere vivo quel vuoto, bisognerà attivarsi per fare in modo che questo spazio torni ad essere appetibile per i cittadini. Che riacquisti la propria attrattività.

Se al posto del Ballarin costruissimo un parco, quanto tempo ci vorrà prima che quel parco divenga un punto di ritrovo abituale per noi cittadini? Noi cittadini che, per circa 40 anni, quello spazio lo abbiamo abbandonato e non lo abbiamo più vissuto. Per 40 anni ne abbiamo fatto a meno. Perché con la costruzione di un parco dovremmo tornare a viverlo e popolarlo? In fondo, un prato verde c’è sempre stato. Eppure non lo abbiamo più percepito.

È dunque veramente vincente un progetto di demo-ricostruzione per arrivare ad ottenere qualcosa di analogo a ciò che c’era già?

Io credo che una valida soluzione sia innanzi tutto quella di sconfiggere il nostro horror vacui, di abbracciare quel vuoto, riappropriacene prima di tutto. Tornare a viverlo e a difenderlo.

Ciò a cui si deve tendere è, prima di tutto, alla capacità di fare in modo che questo vuoto torni ad essere vissuto. Perché diversamente costruiamo solo rovine.

E allora tanto vale tenersi le rovine che ci sono già, che hanno almeno un senso e, soprattutto, una storia.

 

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