Addio a Silvio Tarquini, aveva cento anni: simbolo di una politica vissuta come servizio e non come privilegio  

LUTTO - Molto conosciuto e benvoluto a Castel di Lama era stato consigliere comunale ad Ascoli nelle fila del Partito Comunista per due mandati consecutivi fra il 1965 e il 1975. L’addio oggi alle 14,45, con rito civile, nel cimitero ascolano
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Silvio Tarquini il giorno del suo compleanno

 

di Walter Luzi

Aveva compiuto cento anni a marzo Silvio Tarquini. Se ne è andato ieri, 30 dicembre, nel penultimo giorno dell’anno che lo aveva visto tagliare l’invidiabile traguardo del secolo di vita. Una vita ben spesa. Da contadino. Con l’orgoglio di essere un contadino. Forse l’unico, o uno dei pochissimi agricoltori, a guadagnarsi, per due mandati consecutivi, un seggio di consigliere nel Consiglio comunale di Ascoli. Di opposizione, ovviamente, in anni, fra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima dei Settanta, quando all’Arengo lo strapotere democristiano assumeva proporzioni bulgare.

 

Era un comunista di quelli ortodossi, Silvio Tarquini, discendente della numerosissima famiglia dei Cap’cella, dalle lontane origini, forse, abruzzesi. Quinto, e ultimo sopravvissuto, di sei fratelli. Domenico, Emma, Alberto, Pietro, più grandi, poi lui, prima di Francesco, spentosi a febbraio di questo 2025, ormai andato anche lui. Intelligentissimo, aveva avuto il privilegio, assai raro per i tempi, e per un contadino, di poter studiare fino alla scuola dell’Avviamento. Non oltre. Perché in casa non se lo potevano permettere. Un pezzo di carta molto prezioso all’epoca, che avrebbe potuto anche spianargli la strada verso un buon posto pubblico, dietro a una scrivania magari, e un avvenire di certo più agiato. E invece no.

 

Lui sceglie la sua terra, le sue coltivazioni di ortaggi e di piantine aromatiche. Sceglie la terra per amore e per passione. Non la lascerà mai, fino alla fine dei suoi giorni. Lo riformano alla visita della leva militare per la sua bassa statura, che gli evita così i concreti rischi mortali della guerra fascista. Un piccolo grande uomo, anche lui, come l’eroe cinematografico. Lavoratore instancabile, ma dalla mente viva e aperta. Sempre aggiornato, studioso, esperto di incroci di colture, innovatore per molti versi, collaborerà spesso con l’Istituto di ricerca e sperimentazione agraria di Monsampolo.

 

Vi porta le sue esperienze, le sue conoscenze, le sue intuizioni. La sua Campolungo, e tutta l’intera, fertile vallata del Tronto, da Brecciarolo fino al mare, sono naturalmente votate, come lui, all’agricoltura. Due treni a settimana partono dalla stazione di San Benedetto verso il nord Europa carichi delle primizie stagionali della nostra terra. Sulla costa nascono aziende per la commercializzazione dei nostri cavolfiori, verze, broccoli e cime di rapa. Una possibilità concreta di sviluppo ecosostenibile uccisa dalla bulimica e miope modernità incombente.

 

Lungo gli argini del Tronto arriverà, infatti, l’industrializzazione selvaggia, spesso solo d’assalto spregiudicato ai contributi pubblici della Cassa per il Mezzogiorno. Una rivoluzione, contro logica e contro natura, che distruggerà, con l’ambiente, una vocazione non comune, e cancellerà la Storia e le tradizioni di un popolo sotto uno tsunami di asfalto, cemento e capannoni. Ma quelli come Silvio Tarquini non mollano mai. I voti della sua gente lo spingono verso il Palazzo dell’Arengo, per due mandati, come detto. Non dispone dell’eloquio di quasi tutti gli altri consiglieri, spesso laureati, avvocati e benestanti professionisti, ma non ha, nei loro confronti, alcun timore reverenziale, andando in poche, povere ma chiare parole, sempre dritto al cuore dei problemi della sua categoria.

 

Si fa, a testa alta, portavoce delle loro istanze, alfiere dei loro diritti ignorati. Sindacalista, quasi, di tutti i mezzadri. È un comunista. Per questo, un simbolo, una bandiera. Un puro. Uno di quelli che lascia nelle casse del partito la metà degli introiti, siano gettoni o diarie, legati ad ogni incarico politico ricoperto. La politica intesa come servizio, e non come privilegio. Principio nobile, valido solo per pochissimi oggi, in una casta, soprattutto ai più alti livelli, di inetti, senza disciplina né onore, ma, in compenso, milionari, arricchiti a nostre spese. Silvio Tarquini si guadagna la stima dei suoi compagni di partito molto più istruiti, ma anche quella degli avversari politici. Che dall’alto delle loro schiaccianti maggioranze, non irridono e mortificano, come si usa oggi, le opposizioni. Ma ne riconoscono, con lealtà, quando ci sono, le qualità, e i meriti.

 

Il prestigioso riconoscimento

Saranno proprio i rivali di sempre, i sindaci Antonio Orlini e Carlo Maria Nardinocchi, i primi a mobilitarsi per fargli concedere, nel 1976, il Cavalierato al Merito della Repubblica.

Cinque anni prima, in un tragico incidente stradale, Silvio Tarquini aveva perso, giovanissima, Rosanna, la sua unica figlia, appena diciottenne e attivista comunista anche lei. La disgrazia proprio mentre era impegnata nel locale comitato referendario che si opponeva all’abrogazione della legge sul divorzio Fortuna-Baslini varata l’anno prima. La votazione popolare nel 1974, dove la maggioranza degli italiani votò per mantenere la legge, respingendo l’abrogazione, e sancendo così uno dei più grandi successi storici del Partito comunista nel nostro Paese, premiò, in qualche modo, anche il terribile sacrificio di Rosanna Tarquini.

 

Un dolore di quelli che non passano mai, la morte di un figlio, che Silvio aveva cercare di lenire nella solitudine fra i solchi dei suoi campi, e in mezzo alla gente vociante del mercato ascolano, dove è sempre andato di persona, con la sua Fiat Panda, a vendere i suoi amati ortaggi. I frutti benedetti della santa madre Terra. Fino in tarda età aveva continuato ad arrampicarsi sulle scale a pioli per potare le sue piante, o raccoglierne i frutti. A sudare e a scrutare il cielo. A bisticciare con i preti che volevano benedire anche la sua casa in vista della Pasqua. Ad essere di aiuto a tutti i vicini, o a chiunque glielo chiedesse.

 

Nei lavori in campagna, nelle mille cose che sapeva fare, o anche solo per un consiglio, un parere, sempre illuminante, assennato, sulle tante pene della vita. Aveva continuato a leggere, Silvio Tarquini, a informarsi, con lo stesso interesse di sempre, sugli accadimenti di un’epoca, anche se non era più la sua. Ad ammirare albe a tramonti fra le sue colture. Fino all’ultimo.

 

Dopo la morte della sua Letizia, nel 2003, aveva ritrovato nuova cura, calore umano e affetto sincero, in Aparecida. In estate, sul rettilineo di Campolungo, capitava di vederlo seduto sotto l’ombrellone per ripararsi dal sole in mezzo alle cassette dei suoi ortaggi, in mostra per gli automobilisti di passaggio. Non tanto per ricavarne qualche spicciolo dalla vendita. Ma, soprattutto, per poter scambiare qualche chiacchiera con chiunque accostava. Perché stare a parlare con la gente gli piaceva.

 

Oggi 31 dicembre , alle 14,45, l’addio a Silvio Tarquini, al cimitero di Ascoli, ovviamente con un rito civile. Non sia mai, compagno.


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